La peste suina africana (Psa), una delle più pericolose malattie animali al mondo, è stata individuata tra le province di Alessandria e Genova, in 15 cinghiali trovati morti: 12 in Piemonte e tre in Liguria. Si tratta di un virus altamente contagioso che colpisce i maiali domestici e i cinghiali (letale fino al 90 per cento dei casi), mentre non ha alcuna conseguenza sulla salute umana.

Finora non esistono cure o vaccini e l’unica contromisura, nel domestico, sono gli abbattimenti dei capi infetti e di tutti quelli che sono stati a contatto con loro: se in un allevamento dovesse verificarsi un caso andrebbero depopolati tutti i suini. Sono inoltre fondamentali le buone pratiche sanitarie, con strette misure di biosicurezza. Il controllo nei cinghiali può essere ancor più difficile, specie se non si riesce a governare il focolaio fin dalle prime fasi.

Il virus si trasmette ingerendo scarti alimentari contenenti carni infette, attraverso carcasse di cinghiale di cui si possono nutrire altri cinghiali, ma anche per via sessuale, con feci, urine, o il sangue perso da un animale ferito durante la caccia. È molto resistente nell’ambiente, specie d’inverno.

Ecco perché, fra le misure di contenimento adottate per i prossimi sei mesi dai ministeri della Salute e delle Politiche agricole nei 114 territori comunali individuati come area a rischio (78 in provincia di Alessandria e 36 in quelle di Genova e Savona), c’è il divieto di caccia, trekking, circolazione in mountain bike, raccolta di funghi e tartufi. Evitare la presenza umana significa ridurre la possibilità di spostamento del virus attraverso indumenti, scarpe e auto entrate in contatto con la peste suina africana.

Una scelta estrema

Lo stop all’attività venatoria, oltre a bloccare la circolazione di centinaia di cacciatori, serve a contenere la movimentazione dei cinghiali che con le battute di caccia rischierebbero di spostarsi dai loro areali. Per questo la regione Piemonte ha allargato nelle ultime ore la zona di controllo, con il divieto di caccia, entro un raggio di 10 chilometri dai siti a rischio.

Altra misura governativa, a dir poco drastica, riguarda la macellazione di tutti i suini presenti nei 114 comuni della “zona rossa”, censiti negli allevamenti allo stato brado e famigliari, mentre non si interverrà su quelli convenzionali che, secondo le autorità sanitarie, garantiscono sufficienti condizioni di biosicurezza.

È una sorta di vuoto biologico estremo, della durata di sei mesi, con cui si vuole impedire il salto dal selvatico al domestico. In questi giorni si sta procedendo con la sorveglianza passiva del territorio alla ricerca di carcasse di cinghiali da ritirare dai campi per ridurre i contagi e quindi da analizzare in laboratorio per aggiornare l’areale dell’epidemia.

Centinaia di volontari, forze di polizia e soprattutto cacciatori stanno setacciando le valli coordinati dal personale veterinario. A oggi i luoghi dei ritrovamenti di carcasse infette distano in media una quarantina di chilometri dal pavese in Lombardia e dall’Appennino piacentino in Emilia, così come si è a meno di 80 chilometri dalla provincia di Massa Carrara in Toscana.

In questi territori, tra boschi e parchi naturali in cui è vietata la caccia, i cinghiali hanno raggiunto numeri elevatissimi. Con un’azione sul controllo delle popolazioni, quantomeno carente negli ultimi anni, si stima che in Italia siano presenti ben oltre due milioni di esemplari. Fra qualche settimana, una volta delimitata con precisione la zona infetta, si procederà con il depopolamento dei cinghiali presenti nelle aree confinanti.

Commissari

Sul piano organizzativo la regione Piemonte ha nominato Giorgio Sapino, già responsabile dei servizi veterinari e direttore del dipartimento di prevenzione dell’asl Cn1, commissario straordinario per la gestione dell’emergenza Psa.

In accordo con la regione Liguria è stato inoltre chiesto al ministero della Salute che sia nominato un commissario interregionale Piemonte-Liguria, già individuato in Angelo Ferrari, attuale direttore generale dell’Istituto zooprofilattico sperimentale (IZS) di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Il Mipaaf ha intanto stanziato 50 milioni per far fronte all’emergenza e venire incontro alla filiera suinicola che, secondo l’associazione industriali delle carni e dei salumi, rischia di perdere 20 milioni al mese.

Il rischio embargo

In Italia sono allevati circa 8,5 milioni di suini: oltre la metà in Lombardia che insieme a Emilia-Romagna e Piemonte superano il 77 per cento del comparto nazionale. Secondo Confagricoltura le esportazioni si attestano intorno a 1,5miliardi di euro l’anno di cui oltre 500 milioni nei mercati extra Unione europea.

Il rinvenimento del virus ha già avuto conseguenze: Cina, Giappone, Taiwan, Svizzera e Kuwait hanno bloccato le carni suine made in Italy. Il rischio che altri paesi seguano l’embargo è dietro l’angolo, soprattutto se la peste suina africana dovesse colpire il domestico.

Nel mondo

Fino al 2007 il virus era presente solo nell’Africa sub-sahariana e in Sardegna, dove giunse nel 1978 dalla penisola iberica, si sospetta con scarti alimentari sbarcati da un mercantile e smaltiti in discarica.

Portogallo e Spagna hanno debellato la Psa nei primi anni Novanta del secolo scorso dopo quarant’anni di focolai. Anche la Sardegna ha impiegato lo stesso tempo per eradicare il genotipo 1 del virus molto meno aggressivo del genotipo 2, che negli ultimi quindici anni ha invaso Europa e Asia, arrivando in Italia.

L’ultima epidemia parte nel 2007 dalla Georgia, in Caucaso. Gradualmente si diffonde nell’intera Federazione russa, in tutto l’est europeo fino a Germania, Grecia e Serbia. Tanta è la paura che nel 2019 la Danimarca costruisce, per evitare l’ingresso di potenziali cinghiali infetti, una recinzione metallica di 70 chilometri lungo il confine tedesco.

Il virus sbarca anche nel selvatico in Belgio e Repubblica Ceca dove (casi unici) viene debellato. La Psa dilaga in Siberia, Mongolia e quindi in Cina (primo produttore al mondo), dove si stima siano stati abbattuti tra 250 e 300milioni di maiali con perdite di quasi 200miliardi di dollari. Poi è arrivato in sud-est asiatico, Filippine e Indonesia. Una strage che oggi fa tremare gli Stati Uniti: secondo produttore del pianeta e fra i primi consumatori.

L’esempio della Sardegna

L’ultimo riscontro del virus nei suini domestici in Sardegna risale al settembre 2018, mentre è dall’aprile 2019 che la malattia non si ritrova nei cinghiali. I maggiori esperti concordano nel dichiarare raggiunta l’eradicazione, mentre il blocco Ue sulle vendite extra regione di carni e salumi dovrebbe essere presto superato.

Lo storico traguardo è figlio della determinazione dell’allora governatore Francesco Pigliaru che nel 2015 sostenne la nascita dell’Unità di progetto (UdP) per l’eradicazione della Psa. Questa struttura fu organizzata e guidata dal direttore generale della regione Alessandro De Martini, che per la prima volta riuscì a coordinare in un unico punto decisionale tutte le voci istituzionali (assessorati, agenzie, amministrazioni locali, mondo veterinario), ma anche quelle dei portatori di interesse (allevatori, associazioni di categoria e venatorie).

Centrale fu l’attività di informazione e comunicazione, piuttosto che la formazione sulla biosicurezza di allevatori e cacciatori grazie a cui si raccolsero centinaia di migliaia di campioni da suini e soprattutto cinghiali: elemento indispensabile per il monitoraggio del virus.

«A differenza di ciò che accade in Europa, in Sardegna non erano i cinghiali a fare da serbatoio della malattia, ma i maiali non registrati all’anagrafe, senza controlli sanitari e detenuti allo stato brado illegale nelle terre pubbliche di pochi comuni nel cuore dell’isola. Si è dovuto quindi intervenire con la misura impopolare degli abbattimenti (circa 6mila) e invece con incentivi per le diverse centinaia di allevatori che si erano regolarizzati». Così Alberto Laddomada, già responsabile della politica della Commissione europea sulla sanità animale dal 2008 al 2015 e coordinatore scientifico dell’UdP da ex direttore dell’Izs sardo.

«Dal punto di vista tecnico-scientifico è il “modello belga” quello da seguire in Piemonte e Liguria: recintando le aree interessate, dando tempo alla malattia di decimare i cinghiali e, una volta diradate le popolazioni, procedendo con gli abbattimenti. Sul piano organizzativo sarebbe invece necessario mettere in piedi una struttura come l’UdP, riconosciuta un modello molto efficace anche dalla Commissione europea. Le decisioni che verranno prese in questi giorni saranno cruciali. Non c’è tempo da perdere».

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