Il 17 luglio scorso, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo di attuazione della delega, contenuta nella legge per la concorrenza 2021 (l. n. 118 dell’agosto 2022), in tema di mappatura e trasparenza dei regimi concessori di beni appartenenti al demanio e al patrimonio indisponibile.

Il nuovo sistema di rilevazione, denominato Siconbep, conterrà le informazioni relative a tutte le concessioni (natura del bene, ente proprietario e gestore, durata della concessione, modalità di assegnazione, entità del canone ecc.).

Le concessioni balneari erano comunque già censite in una banca dati presso il ministero dei Trasporti (Sid - Sistema Informativo del Demanio). L’istituzione del nuovo sistema comporta un’inevitabile conseguenza: passerà diverso tempo prima di metterle - forse - a gara.

Le concessioni balneari, i giudici e la legge

Nel dicembre del 2020, la Commissione europea ha avviato nei riguardi dell’Italia una nuova procedura di infrazione per la mancata applicazione della direttiva Bolkestein, che obbliga alla messa a gara delle concessioni di beni pubblici, tra cui le spiagge.

Nel novembre 2021 il Consiglio di Stato (CdS) in adunanza plenaria (sentenze nn. 17 e 18) ha affermato che le concessioni devono essere assegnate con gara; che quelle esistenti restino efficaci sino al 31 dicembre 2023, cessando di produrre effetti oltre tale data; che le norme nazionali che dovessero disporre nuove proroghe vadano considerate «tamquam non esset», come se non esistessero, quindi disapplicate da giudici e organi amministrativi.

Nonostante le chiare indicazioni dei giudici sull’illegittimità di proroghe ulteriori, nel febbraio 2023, con la legge di conversione del decreto Milleproroghe, il governo di Giorgia Meloni ha deciso una nuova proroga (31 dicembre 2024, o 31 dicembre 2025 in caso di impedimenti oggettivi).

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella nota di accompagnamento alla legge, ha rilevato che la proroga contrasta con il diritto europeo e con le decisioni giurisdizionali, accrescendo «l’incertezza del quadro normativo», oltre a non rispettare gli «impegni in termini di apertura al mercato assunti dall’Italia nel contesto del Piano nazionale di ripresa e resilienza». E la Commissione europea ha definito «inquietante» la proroga al 2024.

Nel marzo 2023, su tale proroga si è espresso anche il CdS, affermando che essa contrasta con la Bolkestein e la relativa norma andrà disapplicata, in conformità alla sentenza del 2021.

Nell’aprile 2023, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CgUe), ribadendo quanto aveva già deciso nel 2016, ha posto una pietra tombale sulla questione, confermando che le concessioni delle spiagge non possono essere rinnovate automaticamente: serve una «procedura di selezione imparziale e trasparente».

La mappatura

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Ma il governo continua a prendere tempo, e dispone nuova mappatura delle spiagge. È vero che la mappatura era stata prevista dal governo di Mario Draghi con la citata legge delega dell’agosto 2022, ma quest’ultimo aveva prescritto che la delega andasse esercitata entro febbraio 2023.

Invece, nonostante il decreto attuativo di tale delega fosse stato predisposto da Draghi già ad ottobre 2022, e nel novembre 2022 avesse già ricevuto il placet di Garante per la protezione dei dati personali e Conferenza unificata, il governo Meloni ha fatto slittare il termine da febbraio a luglio 2023.

Soprattutto, Meloni ha finalizzato la mappatura all’obiettivo non solo di rimandare la messa a gara delle concessioni balneari, ma addirittura di evitarla, provando a dimostrare che gli arenili nazionali non sono un bene scarso e che, quindi, la direttiva Bolkestein – il cui presupposto applicativo è proprio la «scarsità delle risorse naturali» e, quindi, il numero limitato delle concessioni relative a tali risorse (art. 12) – non si applichi o si applichi in modo limitato.

L’appiglio, secondo il governo, è rinvenibile nella sentenza della CgUe dell’aprile scorso, là dove la Corte dice che la valutazione della scarsità può essere condotta «combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione».

L’esecutivo forse interpreta questo passaggio come un’apertura della CgUe alla possibilità di rimettere tutto in gioco; ed evidentemente reputa che, dopo la nuova mappatura, mescolando le carte attraverso la combinazione dei criteri valutativi forniti dalla Corte, le spiagge risultino non più scarse. Più che un mescolamento di carte, pare il gioco delle tre carte.

La questione della scarsità è già stata vagliata dal CdS, che è arrivato a conclusioni opposte a quelle cui vuole giungere il governo.

La scarsità delle spiagge

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Secondo le citate sentenze del CdS del novembre 2021, la scarsità va valutata, da un lato, in base alla domanda il bene «è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio»; dall’altro lato, in base alla «concreta disponibilità di aree ulteriori rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione».

Cioè bisogna verificare se ci sono spiagge sufficienti a consentire l’entrata sul mercato di «operatori economici diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga ex lege». «Da questo punto di vista» – continua il CdS – «i dati forniti dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle Infrastrutture rivelano che in Italia quasi il 50 per cento delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni (come Liguria, Emilia-Romagna e Campania) arrivano quasi al 70 per cento».

Aggiungiamo noi che, secondo il report 2021 di Legambiente, in alcune parti d’Italia la percentuale è ancora superiore: in Versilia, ad esempio, si arriva a una media del 90 per cento di spiagge in concessione. «Una percentuale di occupazione, quindi, molto elevata» – prosegue il CdS – «specie se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico-ricreative, perché inquinata o comunque “abbandonata”».

In altre parole, ad esempio, se tratti di costa si trovano dinanzi ad acque non balneabili oppure non sono accessibili, non può tenersene conto nella valutazione prevista dalla legge (n. 296/2007, c. 254) che ha imposto alle regioni di individuare «un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili»; nonché dalla legge (n. 118/2022, art. 4) che dispone sia definito a livello nazionale un «adeguato equilibrio» tra aree in concessione e aree libere.

Sulla base di questi dati - concludono i giudici – è evidente che le aree marittime a disposizione di nuovi operatori economici «sono caratterizzate da una notevole scarsità, ancor più pronunciata se si considera l’ambito territoriale del comune concedente o comunque se si prendono a riferimento porzioni di costa ridotte rispetto alla complessiva estensione delle coste italiane, a maggior ragione alla luce della (…) capacità attrattiva delle coste nazionali e dell’elevatissimo livello della domanda in tutto il periodo estivo».

Questo passaggio conferma che, pur combinando i criteri di valutazione indicati dalla CgUe – a livello complessivo, comunale o di porzioni di territorio – e cioè da qualunque profilo si considerino le spiagge italiane, quelle attribuibili ex novo in concessione risultano comunque scarse. «È stato già raggiunto il – o si è molto vicini al – tetto massimo di aree suscettibile di essere date in concessione», conclude il CdS. Dunque, la Bolkestein va applicata.

Come potrà il governo dimostrare che non c’è scarsità? Siccome non si estraggono spiagge da una mappatura come un prestigiatore estrae conigli da un cilindro, si mira forse a rendere oggetto di concessioni anche parti del litorale che, per l’inquinamento delle acque o l’asperità del territorio, ne erano state escluse?

L’obiettivo di evitare l’applicazione della Bolkestein rischia di infrangersi contro il muro, anzi lo scoglio, della realtà.

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