In 20 anni sono stati fatti grandi passi avanti, ma non c’è stato il riconoscimento di alcune comunità islamiche come enti religiosi nonostante il parere favorevole del Consiglio di stato. Con il governo Meloni tutte le attività sono state interrotte. Il dialogo è stato anche funzionale al contrasto al radicalismo religioso, uno dei cavalli di battaglia del centrodestra
«Sig. ministro, con la presente, insieme agli altri membri del Consiglio per le relazioni con l'Islam, le comunico le dimissioni da questo organismo. Per alcuni di noi si conclude cosi una lunga esperienza di collaborazione con il ministero, iniziata oltre dieci anni fa, carica di risultati importanti sul piano delle relazioni con la comunità islamica italiana».
Inizia così la lettera di due pagine inviata dai membri del Consiglio per le relazioni con l’Islam al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e ad altri funzionari del Viminale, accusati di aver interrotto il dialogo con le associazioni religiose musulmane presenti sul territorio italiano.
Accuse che hanno portato alle dimissioni in blocco dell’intero organismo, formato da accademici e rappresentanti delle comunità islamiche, che negli ultimi vent’anni aveva prodotto importanti risultati con il Viminale nell’integrazione religiosa e nella lotta al radicalismo religioso (tanti predicanti radicalizzati sono stati denunciati dalle stesse comunità). Oggi, visto il silenzio e il muro del ministero dell’Interno, secondo i suoi stessi membri quell’organismo non ha più i presupposti per esistere.
L’arrivo di Piantedosi e le dimissioni
Con l’insediamento del governo di Giorgia Meloni c’è stato un netto cambio di indirizzo. In circa due anni le parti sono state riunite solo una volta, il 13 luglio 2023.
Dopodiché «il Consiglio non è stato più convocato»; alcuni progetti sono stati sospesi, come la collaborazione con l’Anci per risolvere la questione dei cimiteri islamici, e «nessuna iniziativa è stata avviata o calendarizzata», si legge nella lettera di dimissioni. «Infine, i percorsi di riconoscimento della personalità giuridica di alcuni enti esponenziali musulmani che si trascinano da anni non hanno ricevuto alcun impulso e, dunque, non hanno ancora avuto quell'esito positivo che finalmente ci si attendeva dopo l’approfondita istruttoria ministeriale e i pareri favorevoli del Consiglio di Stato».
Per questi motivi i membri del Consiglio per le relazioni con l’Islam hanno deciso di rassegnare le dimissioni da un organismo che loro stessi definiscono «ormai pletorico, privato di ogni strumento operativo e con ogni evidenza giudicato non rilevante per la definizione di orientamenti e politiche nei confronti dell'Islam italiano e, più in generale, delle varie comunità di fede».
Dialogo azzerato
A cosa è dovuto questo cambiamento? «Attribuirlo alla linea politica del governo è la risposta più facile, ma insoddisfacente. In vent’anni anche altri ministri di governi di destra come Giuseppe Pisanu e Roberto Maroni avevano accettato la sfida. Questo governo mostra un’incapacità e una chiusura al dialogo», dice a Domani Paolo Naso, professore di Scienza politica all’università La Sapienza di Roma e coordinatore del Consiglio dimesso.
«Durante la pandemia, lo stato aveva chiesto un grande sforzo alle comunità islamiche per chiudere le moschee limitando la libertà religiosa. Avevano mostrato cooperazione e buone pratiche, ora si sta disperdendo tutto quel lavoro buono che abbiamo costruito», continua.
20 anni di lavori
Nel 2005 l’allora ministro dell’Interno Pisanu, del governo di centrodestra di Silvio Berlusconi, aveva intuito la necessità di capire come lo stato italiano si sarebbe dovuto rapportare con le comunità islamiche.
Sono stati riuniti professori, accademici e i membri delle varie comunità che hanno composto in quasi vent’anni una filiera di organismi diversi (Consigli, Consulte) che insieme al Viminale ragionavano sull’organizzazione dei loro rapporti. La legge italiana del 1929 prevede il riconoscimento giuridico degli enti religiosi, ma in Italia è riconosciuto solo il centro culturale d’Italia, che fa capo alla Grande Moschea di Roma.
Le altre organizzazioni come l’Ucoii, il Coreis e la Confederazione islamica italiana non sono enti riconosciuti e hanno un’identità confusa agli occhi dello stato, nonostante rappresentino numeri più grandi di quelli della moschea di Roma. Basta pensare che in Italia sono stimate tra le 900 e le 1.000 moschee.
Il percorso intavolato negli anni ha «prodotto vari documenti di studio e analisi a beneficio delle istituzioni, d'intesa con i ministri, di ogni parte politica, che si sono succeduti al Viminale», si legge nella lettera di dimissioni. Si è arrivati alla firma di una Carta dei valori e un passo importante c’è stato con Marco Minniti nel 2017, quando le parti sono arrivate alla firma del Patto per l’Islam italiano.
Un documento che chiedeva maggiore trasparenza, una formazione dei ministri di culto e una serie di condizioni da rispettare alle comunità islamiche. In cambio, il Viminale avrebbe iniziato un percorso di formazione per arrivare poi al riconoscimento di altri enti religiosi.
Nel frattempo, il dialogo è stato aperto ad altre confessioni religiose e associazioni come quelle protestanti e ortodosse. Il Consiglio, anche grazie al contributo del mondo accademico delle varie università italiane, «ha promosso corsi di formazione finalizzati alla creazione di una leadership costituzionalmente e civicamente competente».
Un approccio, quello italiano, che è stato considerato una best practice all’estero. Tuttavia, le cose cambiano velocemente.
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