La guerra, si sa, è anche gioco di reciproche propagande e di intrecci di soft power. In questa categoria rientrano i video israeliani, rilanciati sui social dall’inizio del conflitto a Gaza, che rappresentano la gioventù woke americana lottare a fianco di gruppi fondamentalisti come Hamas in nome della comune battaglia antimperialista. Le recenti foto di studenti con chitarra e capelli lunghi in stile hippy con in bella mostra la bandiera di Hezbollah provenienti dai campus americani sono solo l’ultima conferma di una contraddizione culturale, che eccede di molto i temi relativi al conflitto a Gaza e si propone come tema culturale e geopolitico degli anni a venire.

Solo chi è obnubilato da categorie anni Settanta, non nota stranezze nel vedere la generazione gender fluid supportare ideologie che catalogano l’omosessualità come peccato gravissimo, punendo anche l’adulterio e la masturbazione. Il divertissement messo in piedi dall’apparato mediatico-culturale dello Stato ebraico illumina ulteriormente la condizione di smarrimento in cui versa la cultura progressista occidentale.

Se fino a poco tempo fa, nei periodi, per la verità mai finiti, di islamofobia galoppante ogni musulmano veniva percepito come un retrogrado, sessista, quando non direttamente terrorista e ad ogni tavola interreligiosa il rappresentante dell’islam doveva giustificarsi di fronte alle domande sulla donna, sulla laicità dello Stato e sulla presunta minaccia connaturata alla sua religione, oggi i ruoli sono cambiati e il primato dei «cattivi» spetta agli ebrei, descritti vome i crudeli vendicatori del periodo preconciliare.

Immagini ben evidenziate in un recente incontro alla sinagoga centrale di Milano, dove all’entrata erano ben esposte le frasi che hanno scandito la narrazione del conflitto a Gaza. Commenti, che hanno portato il rabbino capo Alfonso Arbib a parlare del peggior periodo per le comunità ebraiche europee dalla Seconda guerra mondiale. Non ci si stancherà mai di dire che un conto è la legittima critica politico-militare alla guerra distruttiva e senza scopo che sta conducendo Israele, tra l’altro messa in radicale discussione anche in patria, un’altra applicare categorie teologiche, che infiniti danni hanno portato alla storia europea. Pregiudizi, cosa ancor più grave, estesi a tutto il mondo ebraico, come se l’ebreo milanese fosse in qualche modo responsabile delle azioni del governo israeliano.

Dunque, se prima avevamo le femministe che denunciavano il semplice chador come simbolo patriarcale di sottomissione da cui le donne occidentali si erano emancipate attraverso lotte sociali dolorosissime e provavano il burkini per denunciarne il carattere oppressivo (ricordate Alessia Zanardo?), oggi si tace scandalosamente sugli stupri e i massacri subiti dalle donne israeliane nel pogrom del 7 ottobre. In questi tanti anni di dialoghi interreligiosi ho sempre ritenuto, e ancora ne sono fermamente convinto, che islamofobia e antisemitismo fossero vasi comunicanti legati da un rapporto direttamente proporzionale: al crescere dell’uno corrisponde quello dell’altro.

Ho sempre denunciato, anche all’interno della mia comunità, oltre l’aspetto amorale, i pericoli di cavalcare tesi da scontro di civiltà, che ben presto avrebbero svelato il proprio carattere intollerante anche sulla minoranza ebraica. A cominciare dall’attacco alla circoncisione e alla macellazione rituale, pratiche comuni a ebraismo e islam, moltissimi sono gli esempi in questo senso. In questi tempi in cui gli ebrei europei vengono attaccati per il solo fatto di esserlo e dove nel nome del «non ci facciamo più intimidire dalle vostre accuse di antisemitismo» si legittimano parole che appartengono al repertorio della peggiore tradizione antigiudaica, mi rendo conto che nell’intellettualità occidentale il rapporto islamofobia-antisemitismo può mutare in inversamente proporzionale. Con la constatazione che l’odio antiebraico ha persino la forza di allontanare la minaccia delle nuove battaglie di Lepanto o di Vienna.

In questa macabra sfida fra intolleranze, la più grande sconfitta è la ragione occidentale, che si fa sballottare dagli eventi tenendo insieme tutto e il suo contrario. Uomini a due teste, li chiamava Parmenide.

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