- Domenica 9 gennaio, nello stadio Olembe – 13 chilometri a nord di Yaoundè, capitale del Camerun – vestito a festa, è iniziata la 33^ edizione della Coppa d’Africa.
- L’immagine probabilmente più simbolica dell’evento è quella di Mola, la mascotte della competizione, che gira tra le strade di Bamenda, la capitale delle regioni anglofone del paese, con un giubbotto antiproiettile scortata da un numero enorme di agenti armati.
- Sarebbe auspicabile, nella speranza che questo mese di calcio africano trascorra pacifico, che la Coppa in Camerun fosse l’occasione per la comunità internazionale di accorgersi di quanto sta avvenendo nel paese e attivarsi per portare un cambiamento reale.
Preceduta da mille polemiche e sospesa tra tensioni, grandeur e seri pericoli, domenica 9 gennaio, in uno stadio Olembe – 13 chilometri a nord di Yaoundè, capitale del Camerun – vestito a festa, è iniziata la 33^ edizione della Coppa d’Africa.
Ad assistere gara inaugurale c’erano più di 40mila spettatori, e l’inizio della partita – Camerun-Burkina Faso, vinta dai padroni di casa per 2-1 – è stato anticipato da fuochi di artificio, inni, musiche e danze che hanno raccolto il plauso internazionale per il loro impatto mediatico.
Ma l’immagine probabilmente più simbolica dell’evento, capace di distrarre l’attenzione dagli spettacoli pirotecnici e sportivi, è quella di Mola, la mascotte della competizione, che gira tra le strade di Bamenda, la capitale delle regioni anglofone dove dal 2017 è in atto una guerra per l’indipendenza da Yaoundé, con un giubbotto antiproiettile sotto la maglia ufficiale della nazionale, scortata da un numero enorme di agenti armati.
Il ragazzo che le dà vita, si fa largo tra giovani dai volti tesi e alunni delle scuole elementari precettati come pubblico, fra canti locali e bandiere al vento, sotto la sorridente maschera di leone spelacchiato, come se fosse in una tranquilla zona del mondo. Ma il Camerun non lo è affatto.
Al suo interno – non solo nelle regioni di lingua e cultura inglese – da anni c’è una tensione latente. Non proprio un luogo ideale per una manifestazione sportiva. E il fatto che proprio negli stadi di alcune delle aree più rischiose si giochino una serie di partite, rende tutto ancora più complicato.
Volano di crescita
Il torneo panafricano, grazie ai suoi protagonisti di fama internazionale che militano nelle migliori squadre europee, è passato dall’essere una specie di calcetto amatoriale con solo otto compagini partecipanti e sei giocatori per squadra, a essere una delle manifestazioni di maggiore interesse calcistico oltre che un volano di crescita.
È un’ottima occasione sportivo-culturale per favorire la conoscenza del continente e mostrare i suoi tanti volti al di là delle cartoline stereotipate che siamo abituati a osservare o a veicolare, e incrementare sviluppo.
Il tentativo di molti club europei di bloccarlo o rimandarlo in nome di presunti timori pandemici o addirittura facendo circolare notizie di improbabili varianti autoctone, al solo fine di tenere a casa i propri campioni e averli a disposizione in una fase cruciale dei campionati nazionali, è stato senza dubbio pretestuoso e, qualcuno aggiunge, dal sentore vagamente razzistico.
Non è il Covid a creare minacce reali al Camerun e a chi lo visita di questi tempi: i contagi, mai avvicinatisi neanche lontanamente ai livelli occidentali, di certo restano di gran lunga inferiori a quelli registrati nel periodo in cui in Inghilterra, ad esempio, si sono svolti gli Europei lo scorso luglio.
I veri problemi che mettono a rischio lo svolgimento dell’Africa Cup of Nations (Afcon) sono tutti legati ai focolai di violenza interni al paese.
La repubblica di Ambazonia
Il cruccio maggiore per l’ormai 89enne presidente Paul Biya, che a novembre festeggerà il 40esimo anniversario dall’inizio del suo ininterrotto mandato (prima era stato per sette anni primo ministro, praticamente il padre e soprattutto il padrone del Camerun) è rappresentato dalle regioni nord occidentali al confine con la Nigeria che da decenni chiedono l’indipendenza da Yaoundé e che, dal 2017, con un atto di forza che ha scatenato un conflitto, si sono autoproclamate indipendenti sotto il titolo di repubblica di Ambazonia.
Il Camerun, colonia tedesca fino al 1918, è stato spartito tra i vincitori della Prima guerra mondiale e diviso in due parti: la zona sud occidentale, confinante con la Nigeria (il 20 per cento circa del territorio), è finita sotto il controllo inglese, mentre il restante 80 per cento, comprendente la capitale Yaoundé, è diventata francese.
Nel 1960, la Francia è uscita di scena e la zona francofona è diventata indipendente. La parte anglofona, invece, nel febbraio del 1961, ha indetto un referendum che ha sancito la volontà della maggioranza della popolazione di formare, assieme alla parte francofona, l’unica Repubblica federale del Camerun.
Quando Biya negli anni Ottanta ha spinto per un progressivo abbandono della formula federale, ha di fatto respinto le istanze della minoranza anglofona e imposto il modello “francofono” (scuole, sistema legislativo, lingua, tribunali etc.) a tutto il paese.
Da allora il senso di frustrazione e marginalizzazione dei circa 5 milioni di abitanti dell’area è andato crescendo fino a tradursi, il primo ottobre 2017, in una chiamata alle armi da parte dei gruppi indipendentisti e nella proclamazione della repubblica di Ambazonia (da Ambas Bay, la baia alla foce del fiume Mungo che in epoca coloniale marcava il confine naturale tra le due parti del Camerun).
I morti sono migliaia, i profughi circa un milione, stragi, atrocità, attentati, rapimenti e raid a opera degli Amba boys e dell’esercito, sono ormai la quotidianità. Il tutto nella completa indifferenza internazionale.
Rischi e defezioni
Le partite che si devono giocare nello stadio di Limbe, in piena regione anglofona, o in quelli di Bafoussam e Douala, in zone vicinissime, destano preoccupazione.
Il 12 gennaio la nazionale maliana ha annunciato la sospensione delle sessioni di allenamento nella struttura sportiva di Buea, a 15 km da Limbe, proprio a causa dei combattimenti in corso tra indipendentisti ed esercito.
I due fuoriclasse del Liverpool Mohamed Salah, nazionale egiziano, e Sadio Mané, senegalese, pagano scorte armate per garantirsi la protezione negli spostamenti o durante la permanenza negli alberghi.
È stato imposto il coprifuoco mentre si vedono, in varie parti del paese, non solo a occidente, veicoli blindati che pattugliano le zone vicine agli stadi. Nel frattempo, a complicare la situazione, sempre il 12 gennaio, il senatore Henry Kemende, membro dell’opposizione e punto di riferimento per gli attivisti per i diritti umani, è stato trovato morto proprio a Bamenda. Dalle prime ricostruzioni sembra che la responsabilità dell’omicidio sia degli indipendentisti anglofoni che lo accusavano di collaborazionismo.
Lo stadio di Garoua, invece, altra sede della Coppa, sorge nell’estremo lembo nord del paese dove da anni la penetrazione del gruppo jiahidsta africano Boko Haram rappresenta una seria minaccia. La nota milizia islamica nata in Nigeria, ha fatto la sua prima comparsa in Camerun nel luglio del 2015. Da allora ha causato migliaia di morti e costretto circa 250mila persone alla fuga.
Il rischio che la Coppa d’Africa, da vetrina calcistica e occasione di incontro e sviluppo, si trasformi in tragedia è reale. I gruppi irredentisti in azione nelle aree anglofone, avrebbero certamente potuto cogliere l’occasione per un cessate il fuoco, almeno temporaneo, come da molte parti gli veniva richiesto.
Il presidente Biya, dal canto suo, si sarebbe potuto sbilanciare e procedere al rilascio di alcuni dei tantissimi indipendentisti ora in carcere dando prova di buona volontà, in nome del pacifico svolgimento del torneo e del buon nome del paese. Purtroppo non è avvenuto nulla di questo.
Sarebbe auspicabile, nella speranza che questo mese di calcio africano trascorra pacifico, che la Coppa in Camerun fosse l’occasione per la comunità internazionale di accorgersi di quanto sta avvenendo nel paese e attivarsi per portare un cambiamento reale.
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