- «Noi trafugammo il pallone di Maradona, ma non era tutto d’oro», dice Michelangelo Mazza, ex rapinatore, all’attivo circa 200 colpi, ma anche ex killer del clan Misso, gruppo criminale guidato dallo zio, Giuseppe Misso.
- Avere tra le mani il pallone d’oro di Maradona significa diventare l’obiettivo dei clan napoletani, alcuni capi avrebbero fatto di tutto per riconsegnare il prezioso al Pibe de oro.
- Maradona nutriva il desiderio di riavere il pallone, ne chiese una copia agli inviati di France Football un mese prima della sua morte.
«Noi trafugammo il pallone di Maradona, ma non era tutto d’oro», dice Michelangelo Mazza, ex rapinatore, all’attivo circa 200 colpi, ma anche ex killer del clan Misso, gruppo criminale guidato dallo zio, Giuseppe Misso.
A Domani racconta il suo percorso criminale prima dell’inizio della collaborazione con la giustizia. Da tempo ha cambiato vita e ha scritto un libro in pubblicazione dal titolo Generali dall’inferno. I generali sono i boss che decidono le guerre e l’inferno è di chi quelle guerre le combatte. Mazza, ogni tanto, continua a testimoniare nei processi in corso contro ex alleati e rivali.
Le cassette violate
Anno 1989. Diego Armando Maradona era nel cuore dei napoletani. Aveva appena vinto una coppa Uefa e uno scudetto, si accingeva a portare in città anche il secondo titolo, quattro anni prima aveva trionfato nel Mondiale in Messico con il gol più bello della storia del calcio e con quello, più celebre, segnato con “la mano di Dio”.
A piazza Mercato, nel caveau della banca della provincia di Napoli c’erano le cassette di sicurezza della Napoli bene, due intestate a Claudia Villafane, all’epoca compagna e poi moglie del fuoriclasse argentino.
Nell’ottobre del 1989, una quindicina di rapinatori, la cosiddetta banda del buco, apre il caveau, scassina le cassette di sicurezza e, tra queste, le due contenenti i preziosi della famiglia Maradona. Un bottino da un miliardo di lire, ma tra orecchini e orologi c’è un oggetto importante, molto importante: il pallone d’oro che la rivista France Football gli aveva consegnato come miglior giocatore dei Mondiali in Messico.
Maradona ne chiederà la restituzione per anni, non tanto per il valore economico, ma soprattutto per quello simbolico. Un mese prima della morte, accetterà un’intervista chiedendo agli inviati di France Football una copia del pallone che la camorra gli aveva rubato. Per quel colpo alcuni rapinatori sono stati arrestati, altri no. Tra gli autori del furto che ha sconvolto la città c’era anche Michelangelo Mazza. Sono passati oltre trent’anni, ma il collaboratore di giustizia ricorda quei momenti e quanto è accaduto dopo.
«Era intorno al 1990 (1989, ndr), in due cassette trovammo orologi, diamanti, orecchini e anche questo pallone. Noi non avevamo intenzione di rubarlo, ma quando lo abbiamo trovato lo abbiamo trafugato con tutto il resto. Si componeva di due parti, c’era una base, il piedistallo e la sfera anche se non era tutto d’oro. Fu la mia prima rapina», dice Mazza.
Appena realizzato il colpo, la banda porta orologi, orecchini, gioielli e anche il pallone dall’orafo, loro complice. In questo momento si apre una crepa nel cuore dei rapinatori, alcuni sono ovviamente tifosi del Napoli. «Lo abbiamo sciolto subito perché c’era qualcuno di noi che iniziò a tentennare, ma l’orafo disse “questa è la prima cosa che dobbiamo fondere altrimenti lo vogliono tutti”».
La camorra cerca il pallone
Avere tra le mani il pallone d’oro di Maradona significava diventare l’obiettivo dei clan napoletani, alcuni capi avrebbero fatto di tutto per riconsegnare il prezioso al Pibe de oro. Mazza e la banda del buco non avevano aderenze con i clan, lui entrerà nel gruppo camorristico solo successivamente.
«Per quella rapina vennero tutti, vennero i Licciardi, i Contini, i Lo Russo e ognuno voleva qualcosa: orecchini, orologi, il pallone, non ebbe niente nessuno. Restituimmo solo due orologi, ma forse non erano neanche di Maradona», aggiunge Mazza.
Un dato che, qualche anno fa, è stato confermato proprio da un esponente di vertice del clan Lo Russo. Nel 2011, il collaboratore di giustizia Salvatore Lo Russo ha svelato alcuni retroscena di quella incessante richiesta del pallone e dei gioielli di Maradona.
Ha raccontato di aver aiutato il campione argentino a recuperare alcuni orologi di valore che gli erano stati rubati e di aver provato a fare lo stesso anche con il pallone d'oro, ma che era arrivato tardi perché era già stato fuso. In realtà uno degli orologi non era neanche di Maradona che lo aveva restituito.
Esattamente come oggi racconta Michelangelo Mazza che spiega il fallimento del tentativo della criminalità organizzata di recuperare il pallone, non solo perché è stato subito fuso, ma anche perché la banda del buco si sentiva autonoma dalla camorra.
Il rapinatore diventa killer
«Noi non avevamo rapporti con la criminalità organizzata, noi facevamo un altro mestiere, io sono diventato un killer del clan successivamente e per questioni di famiglia. Mio zio è stato uno dei più carismatici capi della camorra napoletana e ha trascinato me e i miei parenti in questa faida. Nel 1992 mia zia, Assunta Sarno, fu uccisa dall’Alleanza di Secondigliano, gruppo camorristico rivale, mentre andava in carcere a trovare mio zio. Dovevo esserci anche io quel giorno, ma non volli accompagnarla perché mi ero appena fidanzato», ricorda Mazza. Nel 1999 Giuseppe Misso esce dal carcere e, in quell’anno, guadagnano la libertà anche Michelangelo Mazza e i suoi cugini.
Per la famiglia Misso è la grande occasione per vendicare la morte di Assunta Sarno. «Quando andiamo a prendere mio zio al carcere di Firenze, nel 1999, evitiamo un agguato. Da un punto di vista criminale, in quel momento, mio zio era solo. Tutta la malavita campana lo voleva morto perché usciva perdente da una guerra di camorra. I vincenti erano i criminali dell’alleanza di Secondigliano, ma mio zio volle tornare ai fasti di un tempo e iniziò un’altra guerra di camorra».
L’ex camorrista, tra il 1999 e il 2006, ha ammazzato 12 persone (per nove delitti è stato condannato in via definitiva, per altri tre è in corso il processo) prima di collaborare con la giustizia. E gli omicidi li ricorda tutti, ricorda un innocente ucciso, ma anche il ferimento di una bambina e tutto il sangue versato nella città che non riesce a liberarsi del suo male antico.
«Eravamo dei folli, giovani e folli, mi sono pentito di tutto. All’epoca ero un infame, oggi no perché sto con lo stato», dice Mazza. Quei folli per pochi anni allontanarono da Napoli il più potente gruppo criminale campano, l’alleanza di Secondigliano, e si ripresero la città a colpi di arma da fuoco e omicidi (segue).
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