- Se Sars-CoV-2 seguisse il percorso che si ipotizza abbiano seguito gli altri quattro coronavirus endemici, gli scienziati ritengono che uno stato di endemia benigno, ovvero con un basso tasso di letalità nella popolazione, sarà raggiunto quando in media la prima infezione si verificherà tra i 4 e i 5 anni di età.
- L’infezione naturale nei bambini sotto i 5 anni potrebbe essere preferibile alla vaccinazione, se conferisse un’immunità duratura dalla malattia grave capace di proteggere al momento delle reinfezioni nella vita adulta e potrebbe anche contribuire a mantenere la circolazione del virus sufficientemente alta per permettere che gli adulti mantengano aggiornata la loro immunità con incontri frequenti col virus.
- Ma sappiamo ancora troppo poco sugli effetti di lungo termine dell’infezione nei bambini e sulle caratteristiche dell’immunità che si costruirebbero con un’infezione naturale nei primi anni di vita. Le decisioni di salute pubblica nei prossimi mesi devono dunque tenere conto di queste incertezze.
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Persone bloccate all'aeroporto di Johannesburg (AP Photo/Jerome Delay)
Venerdì l’Organizzazione mondiale della sanità ha assegnato alla nuova variante del Sars-CoV-2, B.1.1.529, l’etichetta di variante preoccupante e l’ha denominata Omicron. È stata rilevata per la prima volta in Sudafrica in un campione prelevato il 9 novembre scorso e sembra essere associata a un veloce aumento dei casi nel paese.
Diverse nazioni, tra cui anche l’Italia, hanno imposto limitazioni ai viaggi dal Sudafrica e da altri sei paesi del continente africano dove ci sono casi segnalati. Un primo caso di variante Omicron è stato rilevato anche in Europa, in una donna non vaccinata rientrata in Belgio dall’Egitto e senza legami diretti col Sudafrica o con gli altri sei paesi banditi. L’Oms ha invitato alla cautela.
Serviranno diverse settimane per capire se il grande numero di mutazioni presenti sulla proteina spike, responsabile per l’ingresso del virus nelle cellule dell’ospite, hanno implicazioni per la diagnostica, i vaccini e i trattamenti a nostra disposizione. La preoccupazione è che possa essere più trasmissibile e capace di evadere la risposta immunitaria suscitata dai vaccini e dalle infezioni rispetto alle precedenti varianti, compresa la Delta.
Il fattore bambini
Se queste preoccupazioni venissero confermate, è probabile che il quadro dell’epidemia cambierebbe molto nel breve e medio periodo, spingendo a riconsiderare le strategie vaccinali condotte finora, puntando finalmente a raggiungere una maggiore protezione a livello globale e a reintrodurre l’obbligo di indossare le mascherine nei paesi che lo hanno revocato.
Tuttavia, anche se la variante B.1.1.529 si rivelasse più contagiosa o più evasiva, per il destino di lungo termine dell’epidemia una cosa è fondamentale: che rimanga poco aggressiva nei bambini molto piccoli. Se così fosse, avremmo ancora la possibilità di tendere verso un’endemia benigna o mite.
Un virus è endemico quando la sua circolazione resta più o meno costante nella popolazione, ma non tutte le endemie sono uguali e non tutte sono accettabili per le nostre società. Una misura semplice dell’accettabilità di un’endemia è il tasso di letalità medio nella popolazione.
Il virus dell’influenza è endemico e causa in Italia in media 17mila morti ogni anno, almeno guardando alle quattro stagioni tra il 2013 e il 2016. Questo stato viene mantenuto tramite campagne di vaccinazione mirate, soprattutto agli anziani, che sono più a rischio di malattia grave, e ai bambini, che giocano un ruolo importante nella diffusione del contagio.
Lo studio
Che tipo di endemia raggiungerà il Sars-CoV-2? A febbraio di quest’anno un gruppo di biologi statistici della Emory University di Atlanta ha pubblicato su Science una ricerca che ha provato a descrivere la transizione verso l’endemia ispirandosi ai quattro coronavirus che circolano già in maniera endemica nella popolazione umana senza causare un grosso carico di malattia.
L’ipotesi è che questi coronavirus abbiano attraversato una fase pandemica e siano diventati endemici man mano che l’età media del primo incontro con il virus si è abbassata. Questa ipotesi è basata su uno studio condotto in Cina nel 2013 che ha analizzato il sangue di circa 800 persone tra sei mesi e 74 anni di età che si sono rivolte agli ospedali della città di Pechino tra il 1999 e il 2011. Solo i bambini avevano nel circolo sanguigno gli anticorpi IgM contro i quattro coronavirus endemici, sintomo di una infezione recente.
Gli adulti avevano solo anticorpi IgG, che segnalano un incontro con i virus avvenuto nel passato. Sulla base di questi dati, i ricercatori della Emory University hanno stimato che in media la prima infezione con questi quattro coronavirus avviene tra i 4 e i 5 anni di età.
Domande ancora aperte
Questo suggerirebbe che i bambini incontrino i coronavirus endemici da piccoli sviluppando al più un raffreddore e ottenendo però un’immunità duratura verso la malattia grave che li protegga al momento delle reinfezioni durante la vita adulta. Che questo sia stato il percorso seguito dai coronavirus endemici è però solo un’ipotesi, perché per nessuno di questi abbiamo osservato effettivamente il passaggio da pandemia a endemia e abbiamo pochissimi dati sulla prevalenza e l’incidenza di queste infezioni nelle diverse fasce di età.
La conclusione dei ricercatori statunitensi è quindi che quando l’età della prima infezione sarà in media tra i quattro e i cinque anni di età, avremo raggiunto uno stato di endemia benigna. Per arrivarci dovremo proteggere la popolazione dai cinque anni in su con vaccinazioni periodiche e lasciare che la popolazione dei nuovi nati si costruisca un’immunità duratura infettandosi naturalmente.
Tuttavia, non sappiamo ancora se un’infezione naturale da bambini con Sars-CoV-2 conferisca un’immunità durevole verso la malattia grave. La domanda è ancora aperta. Alcuni studi hanno osservato che la protezione dei vaccini anti Covid dalla malattia grave diminuisce allontanandosi dalla seconda dose, anche se meno velocemente rispetto a quella dall’infezione e soprattutto nei soggetti sopra i 65 anni di età.
Ancora pochi dati
Cosa questo implichi per l’infezione naturale non è chiaro. Sappiamo anche che le reinfezioni sono state generalmente più lievi delle prime infezioni, ma non sappiamo molto su cosa accada dopo anni dalla prima infezione, perché Sars-CoV-2 circola solo da due anni, oppure cosa accada nei bambini, su cui ci sono pochi dati proprio perché nella maggior parte dei casi sono asintomatici e quindi vengono testati meno.
Nel caso in cui l’infezione prima dei cinque anni non conferisca un’immunità verso la malattia grave duratura nel tempo, c’è però un’altra strada che permetterebbe comunque di raggiungere un’endemia benigna. Basterebbe infatti che la protezione dalla malattia grave durasse un po’ più a lungo di quella dall’infezione, come sembra succedere con i vaccini. Ci sarebbe così una finestra temporale in cui diventeremmo di nuovo suscettibili all’infezione ma senza conseguenze gravi. Un incontro con il virus in quella finestra funzionerebbe da richiamo “naturale” dell’immunità.
È importante sottolineare che questi scenari richiedono un buon grado di circolazione del virus, tale da permettere un’infezione sufficientemente precoce nei bambini e sufficientemente frequente negli adulti per richiamare continuamente la loro protezione verso le forme gravi della malattia.
Vaccinare gli adulti
Da questo punto di vista la vaccinazione dei bambini molto piccoli potrebbe essere addirittura controproducente. In un editoriale pubblicato sul British Medical Journal a maggio, Jennie Lavine, biostatistica della società biotecnologica Kairus e autrice dello studio pubblicato su Science a febbraio, ha osservato che la vaccinazione dei bambini piccoli avrebbe come obiettivo principale la riduzione della trasmissione del virus, ma «una volta che la maggior parte degli adulti saranno stati vaccinati, la circolazione di Sars-CoV-2 potrebbe in effetti essere auspicabile, poiché è probabile che porti a un'infezione primaria molto presto nella vita quando la malattia è lieve, seguita da riesposizioni di richiamo durante l'età adulta quando l'immunità che blocca l’infezione diminuisce ma l'immunità che blocca la malattia grave rimane alta. Questo manterrebbe le reinfezioni lievi e l'immunità aggiornata».
Tuttavia, sottolinea che «nuove varianti stanno emergendo man mano che il virus si adatta all’ospite umano ed è quindi essenziale continuare a monitorare la gravità della malattia in tutti i gruppi di età».
Questi scenari guardano al lungo periodo e sono formulati usando dei modelli molto semplificati dell’epidemia. Le decisioni di sanità pubblica, soprattutto quelle che riguardano i prossimi mesi, devono tenere conto dei tanti punti ancora oscuri. Inoltre, non possono limitarsi a considerare solo gli effetti immediati dei contagi, cioè i decessi che causano, ma devono guardare anche alle conseguenze di lungo termine.
Vaccinare i bambini
Il punto più delicato e imminente è senz’altro l’opportunità di vaccinare o meno i bambini sotto i cinque anni, quando, probabilmente nella primavera del prossimo anno, i vaccini saranno approvati anche in questa fascia di età.
Non sappiamo infatti quali siano gli effetti di lungo termine dell’infezione nei bambini piccoli e questo potrebbe spingere le autorità a raccomandare la somministrazione in attesa di capirne di più. La decisione di somministrare il vaccino potrebbe anche arrivare perché la popolazione adulta non è ancora sufficientemente protetta e la diminuzione della trasmissione che deriverebbe dalla vaccinazione dei bambini aiuterebbe a proteggere le fasce ancora a rischio della popolazione.
Long Covid
Sugli effetti di lungo termine dell’infezione si sa di più negli adulti. La sindrome post-Covid-19, in inglese long Covid, comporta la persistenza di diversi sintomi a più di quattro settimane dall’infezione con Sars-CoV-2, tra cui fatica cronica, respiro corto, difficoltà di concentrazione, mal di testa e dolori muscolari. La prevalenza di questa condizione tra coloro che si sono infettati è difficile da stimare perché non sono ancora definiti con chiarezza i criteri di diagnosi.
Tuttavia, l’Office for national statistics britannico conduce un sondaggio periodico su circa 25mila persone e a settembre ha stimato che circa il 2,5 per cento di coloro che si infettano lamentano uno o più di questi sintomi a 12 settimane dall’infezione, ridimensionando per fortuna il 10 per cento stimato ad aprile. Non è ancora chiaro di quanto si riduca il rischio di long Covid in coloro che si infettano dopo la vaccinazione.
Molte risposte dovrebbero arrivare dallo studio Recover, finanziato con un miliardo e mezzo di dollari dai National Institutes of Health statunitensi, che per i prossimi quattro anni indagherà sulle conseguenze di lungo termine dell’infezione coinvolgendo decine di migliaia di partecipanti. Una condizione cronica, anche se con una bassa incidenza nella popolazione che si infetta, potrebbe rappresentare un carico insostenibile per il sistema sanitario anche nella fase endemica.
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