- L’ondata epidemica in corso, provocata dalla nuova sottovariante BA.5 di Omicron ha raggiunto il suo picco e ora sta cominciando a declinare, ma è stata impetuosa per due motivi fondamentali: BA.5 è molto più contagiosa delle altre e varianti riesce ad evadere in parte dai vaccini, ovverosia i vaccini ci proteggono da essa in maniera meno efficace del passato.
- Cosa fare? Dobbiamo fare subito la quarta dose di vaccino agli anziani e i fragili? Dobbiamo farla tutti il prima possibile? O invece è meglio aspettare e fare la quarta dose solo quando saranno disponibili i vaccini aggiornati contro Omicron, verosimilmente dal prossimo inverno?
- Dobbiamo vaccinare immediatamente con la quarta dose di vaccino prima gli anziani e più fragili, e poi dobbiamo vaccinarci tutti perché i vaccini ci proteggono in maniera sufficiente contro Omicron e le sue nuove sottovarianti. Aspettare fino all’inverno per fare la quarta dose con i nuovi vaccini aggiornati contro la variante Omicron potrebbe essere rischioso, perché più aspettiamo e più aumenta il rischio che il virus circoli dando origine a nuove varianti mutate.
L’ondata epidemica in corso, provocata dalla nuova sottovariante BA.5 di Omicron ha raggiunto il suo picco e ora sta cominciando a declinare, ma è stata impetuosa per due motivi fondamentali: BA.5 è molto più contagiosa delle altre e varianti riesce ad evadere in parte dai vaccini, ovverosia i vaccini ci proteggono da essa in maniera meno efficace del passato.
Cosa fare? Dobbiamo fare subito la quarta dose di vaccino agli anziani e i fragili? Dobbiamo farla tutti il prima possibile? O invece è meglio aspettare e fare la quarta dose solo quando saranno disponibili i vaccini aggiornati contro Omicron, dal prossimo inverno?
La risposta immunitaria
Per capire cosa sia giusto fare bisogna spiegare come funziona la risposta immunitaria del nostro organismo contro il virus.
Il coronavirus è formato da un involucro esterno denominato capside, che contiene al suo interno il patrimonio genetico del virus, costituito da Rna. Il capside del virus è formato da tante molecole di proteine, ognuna delle quali è costituita da una lunga catena di mattoncini denominati aminoacidi, avvolta su sé stessa. La proteina più importante del coronavirus è la cosiddetta proteina Spike – cioè Spina. Si chiama così perché costituisce le minuscole protuberanze a forma di spina che sporgono dal capside del virus, dandole la forma di una corona. La Spike svolge un ruolo fondamentale: è la proteina che il coronavirus utilizza per attaccarsi ad altre speciali proteine - chiamate ACE2- che si trovano sulla membrana di certe nostre cellule -come le cellule dell’epitelio delle nostre vie aeree, dei nostri alveoli polmonari e dei nostri vasi sanguigni.
Le proteine si attaccano l’una all’altra con un meccanismo “key and lock”, cioè come una chiave penetra in una serratura. In questo caso, la struttura della proteina Spike del virus, determinata dalla sua sequenza di aminoacidi, la rende una chiave che penetra all’interno della serratura costituita dalla struttura della proteina ACE2 delle nostre cellule. Più perfettamente la chiave-Spike penetra nella serratura-ACE2, meglio il coronavirus si attacca alle nostre cellule, e maggiore è la contagiosità della variante del coronavirus.
La variante
La variante BA.5 di Omicron ha acquisito due nuove mutazioni – le mutazioni L452R e F486V- nella sua proteina Spike che la rendono più affine al nostro recettore ACE2, e perciò più contagiosa. Il coronavirus BA.5 mutato diffuso da un individuo infetto si attacca molto più facilmente alle cellule epiteliali delle vie aeree di chi gli sta attorno, e grazie a ciò un portatore di Omicron riesce ad infettare 15-20 persone, mentre un portatore delle varianti precedenti riusciva ad infettarne solo da 3 a 6. Ma Spike è anche la proteina più “antigenica” del coronavirus, ovvero il suo antigene più potente, cioè quello contro cui si dirige la risposta immunitaria più efficace del nostro organismo.
Quando il coronavirus penetra all’interno del nostro organismo, oppure quando ci viene iniettato un vaccino che contenga la proteina Spike del virus, essi vengono riconosciuti come “estranei”, e ciò scatena la nostra risposta immunitaria. Il coronavirus attiva speciali cellule immunitarie denominate linfociti B, ognuno dei quali comincia a produrre e a rilasciare anticorpi specifici, i quali non sono altro che proteine in grado di legarsi a porzioni specifiche delle varie proteine della superficie del virus.
Ogni linfocita B attivato inizia a moltiplicarsi, generando un clone di linfociti B che producono uno e un solo tipo di anticorpi contro una porzione specifica di una delle proteine del virus. In altre parole, ogni linfocita B riconosce una porzione specifica di una proteina della superficie virus, e inizia a produrre e rilasciare molecole di anticorpi tutte uguali che si modellano proprio sulla porzione di quella proteina del virus, e che si attaccano ad essa, ancora una volta, come una chiave che penetra nella sua serratura.
Però, non tutti gli anticorpi hanno una efficacia identica nel combattere un virus. Nel caso del coronavirus, gli anticorpi più efficaci sono quelli diretti contro la proteina Spike perché colpiscono una sua molecola fondamentale, quella che lui utilizza per attaccarsi alle nostre cellule. Gli anticorpi servono a neutralizzare il virus finché esso nuota o circola nel sangue, all’esterno delle cellule: una volta che le ha infettate ed è penetrato al loro interno, gli anticorpi sono inutili perché non riescono più raggiungerlo.
I linfociti
E a questo punto, entrano in campo i linfociti T. Quando il coronavirus penetra nel nostro organismo e infetta le nostre cellule, poi utilizza il macchinario molecolare della cellula per produrre tante copie di sé stesso. Durante questo processo, alcune delle proteine del virus prodotte dalle nostre cellule infettate vengono “esposte” sulla superficie esterna delle cellule stesse. I linfociti T killer (il nome spiega la loro funzione) riconoscono queste proteine del virus “presentate” sulla superficie esterna delle cellule infettate e le distruggono, uccidendo in questo modo anche le copie del virus contenute dentro di esse. I linfociti T che imparano a riconoscere la proteina Spike del coronavirus sono quelli che meglio riescono ad uccidere il virus.
In modo simile, quando ci viene iniettato un vaccino, per qualche ora esso induce certe nostre cellule a produrre la proteina Spike del virus, che viene poi esposta sulla loro membrana esterna: i linfociti T killer la riconoscono e imparano a distruggere le cellule che la esprimono.
Ma ci sono alcuni problemi.
Quando il virus penetra nel nostro organismo, i linfociti B e i linfociti T vengono attivati in maniera potente. Gli anticorpi secreti dai linfociti B inattivano il virus mentre circola nel nostro corpo, e i linfociti T uccidono le cellule da esso infettate. Ma a poco a poco, grazie proprio all’opera del nostro sistema immunitario, il virus viene combattuto e sconfitto, fino a scomparire del tutto dal nostro corpo, e a quel punto è inutile mantenere tutti quei soldati – i linfociti B e T – attivi al fronte se il nemico non c’è più. I linfociti B e T attivati a poco a poco “si spengono” – i linfociti B smettono di produrre anticorpi, i cui livelli diminuiscono nel sangue, i linfociti T smettono di distruggere cellule - e iniziano a morire.
Restano solo poche cellule B e T cosiddette “di memoria”, quiescenti, che possono sopravvivere per mesi, anni o perfino decenni, e che sono pronte a riattivarsi in futuro, nel caso che quello stesso virus che hanno imparato a riconoscere penetri di nuovo all’interno del nostro corpo. Però, se il virus non si ripresenta anche loro cominceranno a morire e la nostra immunità comincerà a declinare. Allo stesso modo, quando il vaccino viene iniettato nel nostro corpo, esso per qualche tempo induce l’attivazione dei linfociti B e T, che si mettono a produrre anticorpi contro la proteina Spike o a riconoscere e distruggere le cellule che la esprimono sulla loro membrana, dopo qualche mese restano solo le cellule di memoria, e infine incominciano a scomparire anche quelle.
La durata dei vaccini
Quanto lungo possono sopravvivere le cellule di memoria? Dipende da quanto intensamente esse vengono attivate. Il vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia può dare molti anni di protezione. Il vaccino contro l’influenza riesce al massimo a garantire una protezione che dura quattro o cinque mesi, e altri vaccini, come quello contro la pertosse, danno un’immunità che dura alcuni anni: perciò in questi casi si raccomanda di fare un richiamo.
Purtroppo, i vaccini contro il SARS-CoV-2 inducono un’immunità che comincia a svanire già dopo pochi mesi, e gli scienziati non sanno ancora quanto a lungo le cellule B e T di memoria sopravvivano. Per questo, circa sei mesi dopo la seconda dose siamo costretti a farne una terza, che serve a riattivare i linfociti B e T e a generare nuove cellule di memoria che ristabiliscono una piena protezione immunitaria e la prolungano – ma quanto a lungo ancora non si sa. Sembra che l’infezione naturale del virus riesca a indurre un’immunità leggermente più lunga rispetto al vaccino, e che tuttavia inizia declinare dopo una decina di mesi.
Adesso, immaginatevi la scena: se un solo virus penetra nel nostro corpo e ci sono 100 anticorpi circolanti, tutto bene, quelli avvolgono il virus lo inattivano, e noi non ci ammaliamo. Ma se invece penetrano nel nostro corpo 1000 copie del virus e noi abbiamo solo 100 anticorpi circolanti, i virus da principio riescono a sopraffare gli anticorpi, e occorre un po’ di tempo perché i linfociti B si accendano e riescano a produrne una quantità sufficiente a inattivarli, ma noi nel frattempo ci contagiamo. Quando l’immunità svanisce succede esattamente questo: il virus ci contagia, noi abbiamo un tasso di anticorpi troppo basso, e così ci ammaliamo - seppure in maniera più lieve perché dopo qualche giorno i linfociti B si riattivano.
Però, fortunatamente i linfociti B e T – e le loro relative cellule di memoria – non declinano alla stessa velocità: i linfociti B – produttori di anticorpi- scompaiono più in fretta dei linfociti T – killer delle nostre cellule infettate dal virus –, i quali sopravvivono più a lungo. Perciò se il virus ci infetta quando la nostra immunità ha incominciato a declinare -cioè dopo circa sei mesi- da principio trova campo libero e inizia replicarsi incontrastato perché i linfociti B e gli anticorpi circolanti sono pochi, e noi ci ammaliamo; ma quando poi il virus penetra dentro alle nostre cellule, i linfociti T che sono ancora lì, pronti ad agire, iniziano a fagocitare le cellule infettate, e nel frattempo si alza anche il livello degli anticorpi circolanti: così il virus viene distrutto. Per questo se il virus ci infetta di nuovo noi ci ammaliamo ma in maniera più lieve.
Le mutazioni
Però, c’è un altro problema: il virus può mutare. Nel dicembre del 2021 è comparsa Omicron, una nuova variante che, grazie alle sue tante mutazioni a livello della proteina Spike, riesce ad evadere all’immunità precedente, e adesso è anche arrivata la nuova subvariante di Omicron BA.5, che è ancor più immunoevasiva. In questo modo, al declino naturale della protezione immunitaria si aggiunge anche la maggiore capacità del virus di sfuggire ai nostri linfociti B e T grazie alle mutazioni.
Perché la subvariante BA.5 di Omicron riesce ad “evadere” almeno in parte dai vaccini? Se noi siamo stati vaccinati contro la variante Wuhan 1 (quella contenuta nei vaccini) del coronavirus, i nostri linfociti B hanno imparato a produrre anticorpi che sono perfetti per penetrare e inattivare la serratura costituita dalla proteina Spike della variante Wuhan 1, ma che penetrano peggio, e quindi inattivano peggio, la serratura costituita dalla proteina Spike della variante BA.5 di Omicron, che è mutata e quindi ha una struttura diversa.
E i linfociti T killer che hanno imparato a riconoscere la proteina Spike del virus Wuhan contenuta nei vaccini non riescono a riconoscere e inattivare con la stessa efficacia la proteina Spike della subvariante BA.5 di Omicron. Tuttavia, anche contro BA.5 il vaccino riesce ancora a proteggerci in maniera meno efficace ma sufficiente dalla malattia grave e dalla morte, e in maniera ancor meno efficace dal contagio, e così molti di noi, anche chi è vaccinato con tre dosi o che ha avuto infezioni precedenti, ora si ammalano lo stesso ma fortunatamente con sintomi lievi.
E poi c’è un problema in più. Ogni volta che il virus si replica dando origine a due copie di sé stesso, deve duplicare il suo patrimonio genetico, costituito da una lunga molecola di Rna: ma in questo processo di duplicazione dell’Rna possono avvenire mutazioni. Quindi, più il virus circola e più è probabile che sorgano varianti mutate. Pensate alle varianti apparse finora: prima nacque la variante inglese (Alfa) in un periodo in cui in Gran Bretagna quasi nessuno era vaccinato e perciò il virus circolava molto, e poi sono arrivate la variante indiana (Delta), quella brasiliana (Gamma), quella sudafricana (Omicron), tutte sorte in paesi in cui la il tasso di vaccinazioni era basso. Quindi, un alto tasso di vaccinazione scongiura anche il rischio che sorgano nuove varianti aggressive e letali.
Cosa dobbiamo fare?
Dobbiamo vaccinare immediatamente con la quarta dose di vaccino prima gli anziani e più fragili, e poi dobbiamo vaccinarci tutti per scaglioni di età – da chi è più anziano a chi è più giovane - perché i vaccini ci proteggono in maniera sufficiente contro Omicron e le sue nuove sottovarianti.
Aspettare fino all’inverno per fare la quarta dose con i nuovi vaccini aggiornati contro la variante Omicron potrebbe essere rischioso, perché più aspettiamo e più aumenta il rischio che il virus circoli dando origine a nuove varianti mutate. Mentre aspettiamo, potrebbe nascere una nuova variante “Pi greco” ancora più aggressiva e letale della precedente, e perciò aspettare non ha senso. Certo, qui da noi il rischio è relativamente piccolo rispetto a paesi con miliardi di abitanti, molti dei quali non vaccinati, come l’India, e tuttavia il rischio esiste.
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