-
Si parla troppo di vaccini anti Covid. Non si parla invece di come ne parliamo e, soprattutto, della violenza che imperversa in Italia, dai social ai giornali, quando si contrappongono No-vax e Pro-vax.
-
Ogni integralismo nasce dalla paura, ma nel nostro paese questa paura ha tirato fuori una ferocia sopita, un rigurgito fascista in attesa di esprimersi in un nuovo, agonizzante e autorizzato vagito.
-
Facciamo un passo indietro, smettiamo di fare i cannibali con le fragilità degli altri, e offriamo l’un l’altro le parole migliori, le più salde, mentre tremiamo di traverso in questo paese instabile e senza pace.
Si parla troppo di vaccini anti Covid. Non si parla invece di come ne parliamo. Della cornice linguistica con cui li teniamo appesi ai nostri pensieri quotidiani. Parlo della violenza che imperversa in Italia, dai social ai giornali, dell’odio zotico che nel tempo pandemico ha trasformato la lingua italiana in un’arma rovente che perde ogni poesia e civiltà, diventando letale ed elementare come uno sparo.
Pro-vax che minacciano No-vax, no vax che minacciano Pro-vax, in un duello all’ultimo sangue dove la nostra lingua elegantissima esce mortificata, svilita. Ludwig Wittgenstein ci direbbe che questo astio spalmato sulle nostre parole, che come un coltello squarcia e separa, definisce l’ampiezza del nostro sguardo: uno sguardo ormai così angusto, così relegato alla paura infima dell’altro, che anche le nostre parole si sono fatte claustrofobiche come i nostri volti sotto le mascherine.
Imbrigliati nella nomenclatura pseudo-inglese del nostro stato vaccinale – green pass, super green pass, booster, e mettiamoci pure lo smart working, che di smart ha ben poco e infatti in Inghilterra in realtà si chiama più sobriamente remote working – il nostro odio che suona così cool ha invece recuperato un tipo di violenza verbale che sembra far riemerge tempi storici innominabili.
Effetto Lucifero
Forse lo date per scontato: credete sia scontato che la paura della malattia, profonda come tutti i timori legati al corpo, produca divisione e sospetto. È una legge animale, è il gatto che soffia e sputa quando teme che l’altro costituisca una minaccia. Eppure vi sbagliate. La storia è piena di esempi opposti: di minacce contagiose che anziché produrre divisioni hanno prodotto solidarietà. Pensate alla tisi, la tubercolosi polmonare, che addirittura è stata romanticizzata fino a diventare topos letterario. E allora perché in Italia il confronto si è ridotto al barbaro pestaggio in un ring?
Si tratta dell’“effetto Lucifero” teorizzato negli anni Settanta da Philip Zimbardo. È la furia sadica che si scatena quando un’autorità polarizza i cittadini su una precisa norma etichettata come etica (in questo caso il famigerato “bene comune”), creando una spaccatura netta che identifica come nemico chi non risponde a quell’incasellamento (in questo caso i non vaccinati, definiti come non seguaci del “bene comune”).
Questa retorica dell’altruismo canalizzato, invasato come una promessa cattolica di paradiso, ha permesso di sfogare ogni (legittima) frustrazione e disperazione da pandemia canalizzandola facilmente su un unico capro espiatorio. Un’unica percepita minaccia.
Non i fondi mai stanziati per gli ospedali, non l’assenza di areazione sui mezzi, non le strade in cui la movida non si è mai fermata, non le norme schizoidi e spesso incomprensibili, ma la bassa percentuale di persone che, contagiose esattamente come i vaccinati, hanno scelto di non vaccinarsi. Ogni integralismo nasce dalla paura, ma nel nostro paese questa paura ha tirato fuori una ferocia sopita, un rigurgito fascista in attesa di esprimersi in un nuovo, agonizzante e autorizzato vagito.
Un fenomeno italiano
Infatti, in Inghilterra è tutta un’altra storia. Sulle pagine social inglesi dedicate al Covid il livello massimo di astio è «Ti consiglio di vaccinarti» o, sulla sponda opposta, «Sarebbe l’ora di un po’ di trasparenza sui vaccini».
Sui nostri social – al di là di titoli di giornale alla Squid Game come La previsione: quanti no vax moriranno in un mese - leggo ogni giorno di gente che si augura la morte dei non vaccinati o che li insulta nei modi più disgustosi possibili. Vale anche al contrario, No-vax scagliati contro i Pro-vax, con la differenza che l’aggressività nei confronti dei No-vax è appoggiata dall’universo mediatico e politico, da un bollettino che ogni giorno elenca i morti anti vaccinisti con piglio pedagogico-punitivo.
Questo fenomeno discriminante il cui fulcro è una pretesa di reclamare diritti su corpi altrui non poteva che nascere in un paese in cui ancora esistono medici che si rifiutano di praticare un aborto, e in cui si è deciso di bocciare la legge che proteggeva i corpi delle persone lgbt. Solo pochi anni fa circolava la campagna del fertility day chiamando le donne a concepire per bene dello stato, ed è di qualche giorno fa la dichiarazione del Papa sulla minore umanità di chi sceglie di avere una compagnia animale.
Le squadre non servono
È questo arrogarsi il diritto sul corpo degli altri, giudicando aspramente qualunque deviazione dalla norma che stabilisce cosa di questi corpi va fatto, alla stregua delle cosce di maiale appese dal salumiere, che sta segnando il nostro linguaggio in maniera disastrosa. Smettiamola con le squadre Pro-vax e No-vax e parliamo di esseri umani che hanno affrontato le loro legittime paure in modi opposti ma speculari, modi che non meritano nessuna reificazione dei corpi a beneficio di una retorica imposta.
È proprio il linguaggio che in Inghilterra protegge, come una guaina, lo scoppio della follia: parliamo di una società che sull’etichetta, sull’educazione, ha fondato le basi della convivenza, e proprio in questo caso ha dimostrato come la gentilezza, lungi dall’essere una superficie di circostanza, può impedire la deflagrazione del disastro. Non esiste, sui giornali inglesi, il conto dei morti No-vax. Esiste un filtro, una decenza implicita che vigila sull’espressione dell’odio e della discriminazione.
Forse c’entra anche il pudore che sempre porta gli inglesi a non esprimere i sentimenti più immediati, e dopotutto cos’è il linguaggio se non un pensiero filtrato dalla coscienza che esiste un altro, qualcuno che delle tue parole subirà le conseguenze? Naturalmente, se l’assunto è che il corpo degli altri ci appartiene, si capisce che non esista alcuno scrupolo nel bersagliare quei corpi con le nostre parole.
Il concetto di civiltà non coincide con la compiacenza cieca e positivista alla scienza (che per definizione è un iter, da rispettare e da seguire nel tempo, nei suoi dati mutevoli) bensì con il mantenimento di una comunità umana che, protetta dalla scienza, al conflitto sceglie la cooperazione. E la cooperazione inizia dal linguaggio: pensate alla Cina, una nazione sconfinata, che si è tenuta unita nei secoli grazie all’unità grafica della sua scrittura.
Pensate invece a come l’Italia si spezzetta continuamente tra nord e sud, tra recriminazioni e beoti razzismi. Scriveva Anna Maria Ortese: «A volte, semplicemente osservando su una cartina geografica il nostro paese che si stende nel Mediterraneo, la faccia quasi avvolta in una cortina di nubi eterne, mi prende un senso di pena; […] come una persona gettata di traverso su un letto fa pensare a un sonno tormentato, l’Italia, con questa sua sola positura, questa linea abbandonata, ci ricorda una storia senza pace, aperta su un’instabilità naturale».
Se c’è una cosa che l’isolamento di questi anni, non solo i lockdown e le quarantene ma questa nuova socialità rabbiosa e distante, ci ha insegnato, con l’aumento vertiginoso di sofferenze psichiche nelle persone, è che il cervello umano, in assenza di sufficiente intimità con l’altro, divora se stesso e gli altri. E allora facciamo un passo indietro, smettiamo di fare i cannibali con le fragilità degli altri, e offriamo l’un l’altro le parole migliori, le più salde, mentre tremiamo di traverso in questo paese instabile e senza pace.
© Riproduzione riservata