Un’azione popolare promossa dal mondo accademico e da Cild chiede al Viminale la chiusura definitiva del centro di Ponte Galeria, sulla cui gestione la stessa prefettura di Roma ha mosso rilievi
«Ci trattano come animali e questo posto sembra un canile», dice al telefono Faouzi, un ragazzo rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Roma Ponte Galeria, proveniente da un paese nordafricano, che preferisce rimanere anonimo per non correre alcun rischio. Racconta di «una situazione disumana» in questo luogo di detenzione amministrativa, dove vengono recluse persone fermate senza permesso di soggiorno.
Alla base della detenzione non c’è un reato e «non sappiamo nemmeno perché siamo rinchiusi qua dentro», continua. Le presenze cambiano velocemente, ma ad oggi sono recluse una novantina di persone, costrette a vivere in un posto «fatto di cemento e sbarre», dove «l’igiene dei bagni e delle docce non esiste» e «il cibo fa schifo e si mangia solo per non morire di fame». Condizioni che hanno portato a uno sciopero della fame, durato circa un giorno, e che portano ad atti di autolesionismo o, nei casi più estremi, a «fare le corde», dice il ragazzo trattenuto, parlando dei tentativi di suicidio. E se accade qualcosa di notte, «fai in tempo a morire prima di essere soccorso».
«Le persone trattenute sono giustamente esasperate per il fatto che permangono in uno stato di limbo e indeterminatezza, oltre che per le condizioni del trattenimento stesso», afferma l’associazione A Buon Diritto, che da anni entra e monitora la situazione del Cpr romano. Una situazione che «è peggiorata con l’allungamento dei termini di trattenimento stabiliti dall’attuale normativa», spiega l’associazione. È stato infatti il decreto Piantedosi ad aumentare da 90 giorni a 18 mesi il termine massimo di trattenimento.
Faouzi denuncia la limitazione al suo diritto di difesa: «Sono riuscito a incontrare la mia avvocata solo una volta. Non fanno entrare i legali». Riesce a parlarle al telefono «ma non è la stessa cosa». È richiedente asilo e non si spiega perché non possa aspettare l’esito della domanda fuori dal Cpr, dove ha una compagna, un lavoro e una casa. Ha passato diversi anni in carcere e, spiega, «si stava molto meglio. Sapevi che dovevi scontare la tua pena, che aveva una funzione rieducativa. Nel Cpr ti chiedi: «Cosa ci faccio qui? Cosa aspetto?».
Condizioni indegne
Ed è proprio la struttura di Ponte Galeria al centro dello studio di Cild, la Coalizione italiana per i diritti civili, che ha messo ancora una volta nero su bianco le condizioni da girone infernale in un lungo rapporto che è stato presentato ieri in Campidoglio. Un inferno fatto di condizioni detentive indegne e violazione dei diritti minimi di cittadinanza.
Il Cpr di Ponte Galeria è un buco nero nella capitale d’Italia, è un non luogo in cui le persone trattenute perdono la propria identità, dove le persone vengono distribuite nelle diverse celle di pernottamento in base alla loro provenienza geografica (es. nord-Africa; Africa subsahariana), è una prigione etnica, in cui non vi sono locali di trattenimento separati per i richiedenti asilo, come prevede il testo unico immigrazione del 2015, e come ha stabilito il Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
Quando il 3 ottobre scorso una delegazione di Cild ha ispezionato i locali della sezione maschile, i detenuti hanno riferito di dormire su letti privi di materassi, in dieci all’interno di singoli stanzoni, con soli due bagni a disposizione. Tuttavia, il direttore a capo della struttura non ha consentito alla delegazione di visitare i locali di pernottamento, come invece era accaduto qualche mese prima, quando gli avvocati di Cild vi erano entrati accompagnati dalla deputata del Pd, Rachele Scarpa.
Allora, i materassi in una delle celle visitate c’erano, sì, ma usurati, di gomma piuma e privi di reti, senza lenzuola. In un’altra cella di 20 metri quadrati dove dormivano 8 persone, invece, c’erano 8 strutture in metallo, senza materassi, e allora molti detenuti dormivano direttamente sulle reti.
Ombre su Ors
Eppure, a fronte di questo tipo di «accoglienza» che comprende docce e bagni in condizioni degradanti, una distribuzione insufficiente di dentifricio, shampoo e bagnoschiuma, carta igienica e di vestiario, come ammette la stessa prefettura di Roma in una relazione, la multinazionale Ors che gestisce il centro dal giugno del 2021 si è aggiudicata la gara d’appalto per la durata di dodici mesi (rinnovabili per un periodo massimo di un anno) alla cifra considerevole di sette milioni e duecentomila euro iva esclusa.
E però non gravano soltanto sulla gestione del centro di Ponte Galeria le ombre su Ors, acronimo di Organisation for Refugees Services, un gruppo che gestisce oltre cento strutture detentive per migranti in tutta Europa. Ma anche sulla procedura di affidamento da parte della prefettura di Roma emergono sospetti e incongruenze, a cominciare dal fatto che ancora oggi la multinazionale elvetica, ora acquisita dal gruppo britannico Serco Group plc, gestisca il centro in totale mancanza del certificato antimafia.
Non solo. Secondo il contratto siglato tra la prefettura e l’ente gestore, l’autorità prefettizia potrà procedere alla risoluzione contrattuale qualora vi sia la «violazione dei diritti fondamentali degli stranieri accolti di cui all’art.1, c.2, del Capitolato». E invece, la multinazionale rimarrà probabilmente al suo posto di comando, nonostante la prefettura annoti, nelle contestazioni di cui Cild è venuta in possesso, le gravi violazioni dei diritti delle persone detenute, con particolare riferimento ai beni di prima necessità non distribuiti, alla qualità del cibo somministrato, al diritto alla salute che è stato violato.
In seguito a tali contestazioni sono state erogate delle sanzioni nei riguardi di Ors per un totale di 47.359 euro che si sommano ai 110.989 euro decurtati dalla Prefettura, nell’ambito dei controlli mensili sull’esecuzione del contratto, che non è mai stato messo in discussione. Anzi.
Nel frattempo è stata bandita una nuova gara d’appalto nel luglio scorso, a valere per i prossimi due anni e per una cifra pari a 11 milioni e mezzo di euro. Ma il silenzio del sito della prefettura sui partecipanti alla nuova gara, data la scadenza dell’ultima proroga (31 ottobre) lascia intravedere l’ennesimo affidamento diretto alla Ors, con buona pace dei diritti umani e delle condizioni in cui si trovano i detenuti. E della trasparenza.
Un sistema non riformabile
Il sistema dei Cpr «non appare riformabile ma è necessario procedere a un suo smantellamento», una richiesta che aveva già sollevato la commissione parlamentare De Mistura nel 2007. Per questo il mondo accademico ha promosso un’azione popolare per la chiusura di Ponte Galeria, che vede come primo firmatario Mauro Palma, ex Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Un appello alla chiusura definitiva che è stato presentato il 6 novembre in Campidoglio. Al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, alla giunta e all’assemblea capitolina, la Cild ha chiesto di aderire all’azione popolare con cui si richiede al ministero dell’Interno l’effettiva chiusura del Cpr di Ponte Galeria.
E, nel frattempo, di continuare, in forma pubblica e in presenza, le sedute tematiche sulla chiusura del Cpr di Ponte Galeria che si sono cominciate a svolgere nell’ambito della Commissione Politiche Sociali del Comune di Roma, e che hanno già visto, nel maggio di quest’anno, l’audizione della Garante comunale delle persone private della libertà personale, Valentina Calderone. Non soltanto.
La Coalizione italiana per i diritti civili chiede che tali audizioni vengano svolte pubblicamente anche nei confronti di chi, a vario titolo, è coinvolto, nella gestione del Cpr: dalla società Ors alla Prefettura, dalla Questura alla Asl, «cui si dovrà chiedere conto della violazione sistematica dei diritti delle persone detenute in tale luogo», si legge nell’appello: «La necessità che tali audizioni siano pubbliche ed in presenza deriva proprio dal bisogno di aprire uno spazio cittadino di confronto su ciò che accade a Ponte Galeria e di accelerare il processo di chiusura».
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