Gherard Bosonin, nato ad Aosta l'11 maggio 1996, si racconta. L’odissea di un adolescente nel vorticoso mondo dei giocatori venduti e non venduti, prestati e non prestati.
- Dai primi calci da bambino nei campetti sotto le vette del Gran Paradiso al salto che non c’è mai stato.
- Trasferimenti fittizi da una società all’altra, merce umana nei gironi infernali delle “giovanili” delle società di serie A e di B.
- Gherard Bosonin ha scoperto tutto quello soltanto molti anni dopo. Adesso è tornato in Val d’Aosta, lavora con il padre in una piccola impresa edile.
Oggi fa il muratore. Malta e cemento, alza e butta giù tramezzi, maneggia con abilità scalpelli e livelle. Il dolore alla caviglia destra ogni tanto torna, lesione ai legamenti laterali, tre operazioni, quasi un anno con le stampelle. Un ricordo lontano della sua prima vita. Che poi così lontano non è, perché Gherard ha soltanto ventisei anni. Gherard Bosonin, nato ad Aosta l’11 maggio 1996.
«Certo che c’è rabbia per quello che mi è accaduto, la rabbia c’è sempre ma è andata come è andata», dice mentre comincia a raccontare tutto dall’inizio. Dai primi calci al pallone, “pulcino” nella squadra del suo paese, nei campetti sotto la cima del Gran Paradiso. E poi, da adolescente, a spostarsi per mezzo Piemonte e per un pezzo d'Italia. Qualche volta con la maglia numero 4 e qualche altra con la numero 8, sempre con quel sogno: diventare calciatore.
Alla fine è rimasto l’avanzo di un mondo che l’ha schiacciato, una plusvalenza da 700mila euro. Ceduto e non ceduto, comprato e non comprato, venduto e non venduto. E, soprattutto, prestato e non prestato. Il gioco delle tre carte.
Brescia e Pescara, campionato di serie B, stagione 2014/2015. Nello scambio annotato sui registri contabili gli hanno storpiato pure il nome: Gherardo Bosoni. Non c’era più lui, non c’era mai stato. Solo merce umana, pagata smodatamente più di quanto in realtà costava.
L’inseguimento di un pallone
Non è certo il solo. Ma questo ragazzo di un’Italia all’estremo nord, con una spontaneità che un po’ spiazza, ci ricostruisce l’altra sua storia. Lo fa appena finisce la lunga giornata di lavoro in un cantiere a Champoluc.
La piccola impresa edile è di suo padre Giuliano, la madre si chiama Marisa, sua sorella Manuela. Sono tutti di Donnas, villaggio della Valle d’Aosta. Di lì è anche Erika, la sua ragazza, una laurea in Psicologia che forse è servita – e non poco – a dargli sostegno.
«Ho girovagato tanto prima di tornare qui», sussurra Gherard che descrive minuziosamente il suo inseguimento di un pallone da quando era alle elementari. Il Pont Donnas, prima e seconda media tesserato a Ivrea, terza media negli esordienti della Pro Vercelli che all’epoca era in serie C. Papà e mamma che lo portano su e giù, gli allenamenti pomeridiani, la partitella della domenica.
«Lì alla Pro Vercelli ho fatto bene tant’è che, a fine stagione, un osservatore del Brescia mi chiama e mi fa capire che la sua squadra era interessata a me..aspettavano solo la buona uscita dalla Pro Vercelli». Cosa è la buonauscita? «La buonuscita? Non lo so».
Dopo una settimana riceve la telefonata annunciata: Gherard è in partenza. È il 2010, ha quattordici anni, il Brescia è in serie A, lui è ufficialmente nelle giovanili. È la prima volta che va così lontano da casa. Lontano dalla sue montagne.
Lo sistemano nel convitto della società calcistica a Montirone, una cinquantina di chilometri dalla città. «Una struttura fatiscente, cibo non buono, quarantacinque ragazzi come me rinchiusi tutti insieme là dentro. Non è stato un periodo felicissimo, alla mattina scuola, di pomeriggio allenamenti e poi non potevano mai uscire, due ore di buco prima della cena: o si studiava o si stava appiccicati alla PlayStation».
La famiglia si divide
È un andare avanti e indietro fra i “giovanissimi regionali” e i “giovanissimi nazionali” della squadra, prima entra in rosa con i più grandi ma gioca poco e preferisce tornare con i ragazzi della sua età. Sempre centrocampista. Altezza un metro e 85 centimetri, peso forma 72 chilogrammi.
Dietro al pallone è a suo agio, sta bene, è quello che sa fare e quello che ha sempre voluto fare. Ricorda i suoi allenatori: «Sono cresciuto molto con Massimo De Paoli, poi c’erano anche i fratelli Antonio ed Emanuele Filippini che erano stati in serie A, c’era anche l’ex giocatore della Juve Alessio Tacchinardi».
Sembra andare tutto bene sul campo. Tanti gol, un buon rendimento. Ma è un’illusione, una sua illusione. A fine stagione 2012, estate, giugno, gli comunicano da un giorno all’altro che l’anno prossimo non farà più parte delle giovanili del Brescia.
«Senza darmi spiegazioni mi dicono semplicemente: non ti vogliamo tenere più». Da quando è a Brescia non ha mai visto un soldo, solo vitto e alloggio e allenamenti. Gherard ha sedici anni e non vuole mollare, vuole rimanere nel giro.
Trova un compromesso. Stare a Brescia a spese sue. Si affitta un appartamento in città, la famiglia Bosonin si divide. Sua madre Marisa lascia la Valle d’Aosta e va a vivere con il figlio. Un anno infame.
In una partita la caviglia destra cede, una distorsione, un infortunio grave. Sala operatoria, gesso, rieducazione, stampelle. «Praticamente dodici mesi ho vissuto solo con mamma, solo casa e studio: mi è caduto il mondo addosso».
A Brescia nel frattempo frequenta ragioneria. Il contratto che ha con la società è di 4 anni più uno ma non ha più senso stare lì. Non gioca, non lo vogliono. Torna nella sua regione e trova un ingaggio con il Valle d’Aosta in serie D. Scende di categoria, il grande calcio adesso è un miraggio. Ma Gherard non sa ancora che può trasformarsi in un’appetitosa plusvalenza.
Il gioco delle tre carte
Un altro giorno d’estate, sempre giugno, stagione 2015/2016, arriva un’altra telefonata da Brescia. È il direttore tecnico delle giovanili. «Mi è sembrata una chiamata un po’ strana ma il direttore mi dice di avere trovato un posto per me a Pescara, io ero contentissimo, mi si presentava un’altra opportunità per tornare alla grande anche se sarei andato a giocare nelle giovanili e nella Primavera».
Il Pescara è appena retrocesso dalla A alla B. In famiglia sono tutti con Gherard. Papà e mamma caricano l’auto di vestiti e accompagnano il figlio sul mare d’Abruzzo. Anche lì c’è il convitto, a venticinque minuti dalla città.
«Se quello di Brescia era fatiscente a Pescara era veramente un bivacco, eravamo sempre quaranta o cinquanta ma tutti ammassati in piccole stanze, si mangiava anche peggio che a Brescia, da quello che si diceva era gestito da un’associazione vicina alla chiesa e il cibo che ci davano era quello della beneficenza».
A Pescara Gherard si prende il diploma da ragioniere e pure la patente. Come sempre, vitto e alloggio senza vedere mai un euro. E proprio quando, di euro, lui ne vale 700mila. Naturalmente ne è all’oscuro. È una delle tante vittime del gioco delle tre carte. Lo scambio Brescia-Pescara e Pescara-Brescia è con il "gemello” da plusvalenza Alessio Gabrielli, originario di Cisterna di Latina e anche lui classe 1996.
Gabrielli viene ceduto al Brescia e a seguire una lunga serie di prestiti: all’under 17 del Barletta, poi la società Pianese in provincia di Siena, torna al Brescia per essere rigirato alla Varesina in serie D, poi ancora al Brescia e infine al San Marino. Come sulle montagne russe.
«Ho saputo dell'esistenza di quest’altro ragazzo solo quando ho scoperto cosa c’era sotto tutti questi trasferimenti, questo andirivieni fra squadre e noi assolutamente ignari, sempre senza una carta in mano, sballottati di qua e di là», ricorda Gherard che a Pescara può contare su due solo presenze in Primavera. Minuti giocati in un anno e mezzo? Quattordici. Niente, meno di niente dopo quel secondo viaggio della speranza lontano dalle sue valli.
«Scaduto quel famoso contratto di 4 anni più uno con il Brescia e dopo il prestito con il Pescara sono tornato a casa mia e non ho mai più sentito nessuno».
Un altro giro dell’oca
Sugli albi ufficiali della federazione – così assicurano almeno gli esperti della materia – è molto difficile ricostruire l'ultimo miglio della carriera di calciatore di Gherard Bosonin. È come se fosse sparito per sempre.
Ci pensa lui a fare ordine. Un altro giro dell’oca. Prima a Borgomanero, in provincia di Novara. Poi all’Ayfreville nel campionato di Eccellenza, dove si è rotto la caviglia destra per la seconda volta. E infine all’Ivrea Banchette, in prima categoria dove gioca ancora.
«Mi alleno sempre tre volte la settimana e devo stare sempre attento alla caviglia perché me la sono rotta anche per la terza volta. Al primo incidente ho capito comunque che il calcio sarebbe stato il mio passato e non il mio futuro: è in quel preciso istante che il sogno si è infranto».
La malinconia del calciatore viandante
Fra le vette imbiancate si è ripreso la sua vita. Con il padre ogni tanto parla di Brescia e di Pescara, di Pescara e di Brescia. Ritornano i risentimenti. Mai una sola parola con sua madre.
«È come se lei avesse rimosso quel periodo della nostra esistenza, l’anno passato a Brescia e io rinchiuso a casa come un prigioniero». C’è una comprensibile vena di malinconia nella serenità riconquistata.
Ma adesso è tardi per raccontare altro, sta per iniziare una partita dei Mondiali in Qatar. Dice che vincerà la Francia. E domani, come sempre, sveglia all’alba. Il cantiere di Champoluc aspetta Gherard Bosonin, nato ad Aosta l'11 maggio 1996, calciatore viandante, una vita segnata dalla plusvalenza.
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