Un tempo bastava la qualità eccellente. Oggi un vino considerato mitico deve evocare più valori. Tra calo dei consumi e speculazioni sui prezzi, etichette e cantine provano a conquistare la leggenda
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Aveva ragione il saggista francese Roland Barthes a definire il mito un modo di espressione e una forma di comunicazione. Lo fa in uno dei suoi testi più noti, Miti d'oggi del 1957, dove dedica qualche pagina anche alla bevanda e al suo significato per la cultura francese. Siamo lontani dal culto greco di Dioniso - Bacco per i romani - dio dell'ebbrezza e del vitalismo. Il tempo in cui si muove Barthes è quello del Dopoguerra e della desacralizzazione in cui ogni cosa può diventare mitica.
È successo anche al vino, da bevanda venduta sfusa e consumata nel quotidiano a liquido imbottigliato, etichettato e, soprattutto, arricchito di storie, a volte epiche. Ci sono etichette così famose a cui è difficile dare una collocazione geografica (in quanti sanno che il Masseto si fa a Bolgheri?) o una riconoscibilità aziendale (non esiste un'azienda Sassicaia, ma un vino prodotto dalla Tenuta San Guido che porta questo nome). Questa “sacralità” tocca a poche etichette al mondo e ancor meno numeroso è il numero di aziende che vengono definite mitiche. In comune, però, c'è un dato: la loro popolarità ha, all'incirca, cinquant'anni.
Essere mitici
La relazione tra mito e fattore tempo suona quasi come un ossimoro perché il primo vive un eterno presente, ma non la pensa così Camillo Favaro, produttore nel Canavese ma anche narratore di vini entrati nella storia. Attraverso i Quaderni - piccoli volumi con al centro interviste e degustazioni - Favaro ha incontrato personaggi del calibro di Aubert de Villaine, co-proprietario del Domaine de la Romanée-Conti, ma anche Lalou Bize-Leroy, meglio conosciuta come Madame Leroy, l'altra metà della famosa cantina di Borgogna.
Da questi incontri il vignaiolo piemontese ha capito un po' di cose: «Che, innanzitutto, i veri miti non si dichiarano tali. I vini sono straordinari ma sono figli di personaggi carismatici e che anche le blasonate etichette Drc (l'acronimo è un altro segno della miticità di un vino) non è che andassero a ruba negli anni Settanta. Servono tempo, rigore e storicità, tutte cose che a me sembrano mancare oggi. È la differenza che corre tra il concetto di visibilità e quello di prestigio». Sposta un po' in avanti le lancette del tempo Andrea Lonardi, uno dei tre Master of Wine italiani e consulente aziendale con la sua società Andrea Lonardi Cultivating Legacy.
Per lui il binomio mito e vino inizia con gli anni Novanta, quando la bevanda diventa uno status symbol. Oggi accade l'esatto contrario: «Il vino ha smesso di essere un elemento di auto-affermazione – spiega Lonardi – ed è diventato un prodotto finanziario, da comprare e rivendere per fare soldi. L'idea delle bottiglie come asset può accrescere la notorietà di certe etichette, ma il concetto di mito del passato non è più proponibile». Il MW fa riferimento soprattutto alla qualità dei grandi vini, il fattore che più di altri ha reso famosi e cari alcuni nomi. L'auspicio, però, è che prenda piede un altro genere di evocazione: «Fatta salva la qualità – continua il consulente – l'azienda “mitica” è quella che ha una profonda conoscenza del territorio, che ha rispetto per l'ambiente e per le persone. Diventa parte integrante di una comunità e viene portata a esempio. La cantina-mito deve avere un obiettivo filantropico».
Le prossime leggende
L'unicità e la preziosità di una bottiglia sono ancora fatte in gran parte dal prezzo. E, come accade per molti beni di lusso, più un oggetto è caro, più è desiderabile. Il mercato dei collezionisti però è talvolta “drogato” da speculazioni e riacquisti fatti dalle stesse cantine tramite falsi buyer, secondo una pratica non tanto lontana dall'aggiotaggio e il rischio è quello di imbattersi in “falsi miti”.
Il mondo del vino può avere in sé l'antidoto, secondo Armando Castagno, critico enoico e scrittore, che fa il tifo per gli appassionati autentici: «Voglio credere che esista una massa di consumatori meno manipolabile perché parliamo di una materia che richiede uno sforzo culturale. Un grande vino prescinde dalla sua valutazione economica, l'origine del mito va individuata nella bellezza della storia. E qui, mi sento di dire che potrebbe essere il mondo dei naturali, per la sua portata di valori, a far emergere le prossime etichette leggendarie, o per meglio dire quelle la cui ricerca determinerà prima un forte aumento del valore, e di conseguenza l’innalzamento a mito. Non sarà comunque, credo, fenomeno a breve termine».
Nel libro Miti d'oggi, questa volta scritto dall'antropologo Marino Niola, compare la differenza tra miti e mitoidi. Questi ultimi sono “i miti contemporanei, frammenti d'immaginario a tempo determinato”. Un pensiero condiviso da Attilio Scienza, docente di viticoltura ed enologia e grande studioso dei miti classici, che non vede un grande futuro per la categoria: «Viviamo un momento di frattura tra generazioni – spiega Scienza – e quelle odierne e a quelle di domani non importa nulla del mito. Prova ne sia l'attenzione per i vini low e no alcol. Solo gli Stati Uniti, negli ultimi sei mesi, hanno speso un miliardo di dollari per questi prodotti e sempre negli Usa si consuma più cannabis che bevande alcoliche. È un atto una demitizzazione di questa bevanda». Il docente confessa che non riesce più a parlare di miti del vino ai suoi studenti perché lo prendono per matto: «Va bene parlare di clima, di territorio, di metodi di vinificazione – continua Scienza – ma serve anche la poesia, il misterico, una certa imponderabilità che il vino ha. Sennò è solo materia da studiare».
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