Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina, quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina (mediando fra le due rotte, quella africana e quella colombiana), quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri.
In tutte queste realtà operano attivamente delle ‘ndrine che, a partire dagli anni sessanta del Novecento e ancor prima – gli anni trenta per quanto riguarda il Canada e l’Australia – si erano spostate dalla Calabria per spargersi letteralmente in tutto il mondo.
Gli ‘ndranghetisti arrivarono in questi nuovi territori dapprima al seguito degli emigrati, ma poi, e sempre più spesso, in seguito ad un’ esplicita scelta di politica mafiosa di vera e propria colonizzazione criminale. La ‘ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un’organizzazione reticolare, modulare o per usare l’espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman – liquida.
Su questa definizione e sulla sua utilità per comprendere la natura e la terribile efficacia del fenomeno, si tornerà più avanti. Come si sottolinea in una recente relazione della Direzione Nazionale Antimafia, la chiave di volta organizzativa rimane «la struttura di base del locale (vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, da intendersi nella sua accezione più ampia, comprensiva di economia, società civile, organi amministrativi territoriali; mentre la cosca assume caratteri operativi dinamici, flessibili in relazione alle esigenze poste da attività criminali che si articolano su territori più ampi di quelli di riferimento originario), ma proprio in relazione al narcotraffico e ad altri traffici internazionali in genere, la ‘ndrangheta ha assunto un assetto organizzativo da rete criminale».
La struttura di base di tipo familiare ha rappresentato un decisivo fattore di riduzione del danno prodotto dai collaboratori di giustizia e ha permesso una penetrazione e un radicamento formidabili al di fuori della Calabria. Tra gli anni ottanta e novanta la tempesta dei collaboratori di giustizia travolse Cosa Nostra, la camorra, la Sacra Corona Unita e le altre mafie pugliesi.
Solo la ‘ndrangheta attraversò questa bufera quasi indenne o comunque limitando fortemente i danni: i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni di vertice nei sodalizi criminali. La ragione di ciò è proprio nello schema familiare della ‘ndrina: se la cosca è costituita in primo luogo dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia (in generale non facile) può diventare straordinariamente lacerante e pressoché insopportabile.
Lo ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall’obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento. Si tratta di uno straordinario fattore di protezione, di un anticorpo interno e strutturale del modello ‘ndranghetistico, di un potente fattore di vitalità.
Sul lungo periodo il modello organizzativo della ‘ndrangheta si è dunque rivelato più agile, più flessibile, più efficace di quello gerarchico, monolitico e rigido di Cosa Nostra, rispetto al quale l’aggressione del vertice del sodalizio ha costituito finora un’efficace strategia di indebolimento e di disarticolazione. Strategia inattuabile contro la ‘ndrangheta per l’inesistenza, anche dopo la pace del 1991 (quella che seguì alla sanguinosa guerra fra i De Stefano e gli Imerti-Condello che in poco più di cinque anni lasciò per le strade della Calabria molte centinaia di morti) e la conseguente introduzione di una struttura centrale di coordinamento e composizione dei conflitti.
I mafiosi calabresi sono considerati dai cartelli colombiani come i più affidabili per la loro capacità di gestione degli affari criminali, per la loro disponibilità di basi d’appoggio in tutta Italia, in tutta Europa e in tutto il mondo (oltre alla Calabria, ovviamente, il centro e il nord Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Gran Bretagna, il Portogallo, la Spagna, la Svizzera, l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Colombia, il Marocco, la Turchia, il Canada, gli Usa, il Venezuela, l’Australia) e, come si diceva, per la loro ridotta permeabilità al pericoloso fenomeno dei collaboratori di giustizia.
Oggi dunque la ‘ndrangheta ha una sostanziale esclusiva per l’importazione in Europa di cocaina colombiana ed è alla ‘ndrangheta che le altre mafie italiane, Cosa Nostra inclusa, devono rivolgersi per gli approvvigionamenti di questo stupefacente.
La forza colonizzatrice
Questo riferimento all’espansione nazionale e internazionale della ‘ndrangheta ci introduce all’analisi più approfondita del secondo, congiunto fattore di successo di questa forma del crimine organizzato.
Tale fattore di successo – direttamente collegato e anzi interconnesso a quello della struttura familiare – consiste nell’attitudine colonizzatrice, ed anzi nella vera e propria scelta strategica della ‘ndrangheta di impiantarsi e di radicarsi nelle regioni del centro e del nord Italia, a partire dalla metà degli anni cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono nelle regioni del centro e del nord non per scelta ma perché inviati al confino di Polizia.
In quegli anni si riteneva che per contrastare il potere criminale nelle regioni del sud fosse necessario recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine. Lo strumento era quello del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di nascita o di residenza.
In tal modo i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, furono inviati nelle regioni del centro e del nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie o strade di grande comunicazione. Ma l’idea di recidere i legami con il territorio (adatta a un’epoca pre-moderna) non poteva funzionare in un periodo storico in cui rapidissimo era già lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni.
Ferrovie, autostrade, aerei e lo sviluppo della telefonia consentirono sostanzialmente di annullare l’effetto dei provvedimenti di soggiorno obbligato e ciò anche in relazione a una nota paradossale della relativa disciplina. Se infatti il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno.
Il contesto mafioso si riproduceva dunque nelle località di soggiorno obbligato dove si verificavano riunioni operative e financo cerimonie di affiliazione. Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia.
Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante.
L’esempio più clamoroso è quello di Bardonecchia dove il condizionamento del mercato del lavoro e lo stesso consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Altri comuni dell’hinterland milanese come Corsico e Buccinasco, ancora oggi, sono pesantemente condizionati dalla ‘ndrangheta.
In estrema sintesi e conclusivamente sul punto si può dire che la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti.
Un’organizzazione mafiosa che trova il modo di affrontare le sfide e i cambiamenti imposti dalla modernità globale, nel modo più sorprendente e inatteso: rimanere uguale a se stessa. In Calabria come nel resto del mondo.
I traffici di droga
Non sarà inutile ricordare in proposito che nel 1988 l’allora dirigente della squadra mobile di Cosenza (poi divenuto dirigente del Sismi e ucciso a Bagdad il 4 marzo 2005 durante una missione) Nicola Calipari recuperò in un appartamento a Sidney un incartamento con rituali di affiliazione, formule di giuramento e codici. Un incartamento simile per molti aspetti a quello sequestrato dai Carabinieri nelle campagne di San Luca già negli anni trenta del secolo scorso.
Il rispetto della tradizione criminale come premessa per la proiezione nazionale e internazionale dei traffici illeciti. Negli ultimi anni numerosissime indagini hanno messo in luce queste caratteristiche della ‘ndrangheta e hanno mostrato come essa sia oramai l’organizzazione più ramificata e radicata territorialmente nelle regioni del centro-nord e in molti paesi stranieri di tutti i continenti.
Basterà citare una sola di queste indagini, a mero titolo esemplificativo, per avere un’idea delle dinamiche criminali, delle proiezioni nazionali ed internazionali, delle enormi proporzioni economiche del fenomeno. Nel 2004 l’operazione convenzionalmente denominata Decollo concludeva una complessa indagine transnazionale durata alcuni anni che aveva interessato diverse regioni italiane: Lombardia, Calabria, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte e Toscana; e poi paesi stranieri come Colombia, Australia, Olanda, Spagna e Francia. Le famiglie Mancuso di Limbadi e Pesce di Rosarno furono accusate di aver immesso sul mercato «ingentissimi quantitativi di cocaina tra il Sud America (Colombia e Venezuela), l’Europa (Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania), l’Africa (Togo) e l’Australia, riciclandone quindi i proventi con le più diversificate tecniche di trasferimento e di dissimulazione»
La droga era nascosta all’interno di containers che trasportavano carichi di marmo, plastica, cuoio, scatole di tonno, materiale tutto oggetto di import-export tra Sud America ed Europa. Una partita di droga di 434 kg di cocaina era arrivata al porto di Gioia Tauro nel marzo del 2000, un’altra di 250 kg sempre di cocaina proveniente da Cartagena in Colombia era arrivata a Gioia Tauro nel gennaio del 2004.
Tra le due date, d’inizio e di conclusioni delle indagini, una miriade di altri episodi. Una parte del riciclaggio dei proventi avveniva in Australia attraverso “un sofisticato meccanismo di intermediazione che vedeva l’impiego di specialisti in grado di assicurare i passaggi bancari necessari a perfezionare i trasferimenti del denaro”. Il contagio delle ‘ndrine da Limbadi e Rosarno all’Australia. Da San Luca a Duisburg. Molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida, che si infiltra dappertutto, riproducendo, in luoghi lontanissimi da quelli in cui è nata, il medesimo antico, elementare ed efficace modello organizzativo.
Alla maniera delle grandi catene di fast food, offre in tutto il mondo, in posti fra loro diversissimi, l’identico, riconoscibile, affidabile marchio e lo stesso prodotto criminale. Alla maniera di Al Qaida con un’analoga struttura tentacolare priva di una direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica, di una vitalità che è quella delle neoplasie, e munita di una ragione sociale di enorme, temibile affidabilità. Il segreto per la ‘ndrangheta è questo. Tutto nella tensione fra un qui remoto e rurale e arcaico e un altrove globalizzato, postmoderno e tecnologico.
Tutto nella dialettica fra la dimensione familiare del nucleo di base, e la diffusione mondiale della rete operativa. La capacità di far coesistere con inattesa efficacia una dimensione tribale con un’attitudine moderna e globalizzata è stata fino ad oggi la ragione della corsa al rialzo delle azioni della ‘ndrangheta nella borsa mondiale delle associazioni criminali.
Proprio questa tensione, questo fattore di successo potrebbe rivelarsi però, in prospettiva, un fattore di disgregazione. Le ‘ndrine infatti sono, individualmente considerate, troppo piccole per reggere gli enormi traffici che hanno messo in moto.
Sono in continua competizione fra loro e, paradossalmente, la loro diffusione planetaria si accompagna a un’intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei circoscritti territori di rispettiva competenza. Una febbre di crescita, una situazione instabile ed entropica che comincia a produrre gravi scricchiolii e potrebbe generare una crisi di sistema. Sul punto è necessaria qualche precisazione. La ‘ndrangheta si è mossa sempre cercando di evitare la sovraesposizione, la luce dei riflettori, l’attenzione dei media.
Le ‘ndrine si sono combattute in modo sanguinoso, hanno ucciso migliaia di persone, hanno intimidito con minacce e attentati centinaia di amministratori locali, ma non hanno mai realizzato azioni capaci di attirare in modo durevole l’attenzione nazionale e men che meno quella internazionale.
La ‘ndrangheta ha in sostanza adottato una strategia opposta a quella dei corleonesi e la Calabria non ha mai conosciuto una stagione di stragi o di morti eccellenti. Fanno eccezione gli omicidi di Ludovico Ligato nel 1989 e di Antonino Scopelliti nel 1991, ma si tratta appunto di eccezioni, caratterizzate da specifiche peculiarità e che non alterano i termini di un modello di condotta mantenuto sostanzialmente integro nei decenni.
In quest’ultimo biennio però, sono accaduti fatti che mettono in crisi quel modello e la febbre di crescita cui si faceva cenno ha generato azioni clamorose che non trovano riscontro nella lunga storia precedente. Una di queste azioni è la strage di Duisburg.
L’altra è l’omicidio di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, colpito dai sicari mentre usciva dal seggio dove aveva votato per le primarie dell’Unione. La prima volta che la ‘ndrangheta mira così in alto nella gerarchia politico-amministrativa. In entrambi i casi la ‘ndrangheta accetta il rischio che queste azioni comportano. Per entrambi i casi, forse, l’accettazione di questo rischio potrebbe essere stata un calcolo sbagliato
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