Un gruppo di famiglie calabresi, migrate tra la metà degli anni ’40 e gli anni ’60, si erano portate dietro il know-how della ’ndrangheta calabrese – allora acerba eppure già ben delineata nei suoi tratti identitari – e si erano negli anni arricchite comprando terreni e arrivando, negli anni ’70, a gestire oltre 22 piantagioni di cannabis sul territorio
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni, a cura dell’associazione Cosa vostra. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Trame, festival dei libri sulle mafie di Lamezia Terme, con 15 articoli sui temi al centro degli incontri del Festival.
Una distesa di aranceti – o erano limoni? – mi accolse la prima volta che andai a Griffith, nel Nuovo Galles del Sud, in Australia. Era il 2017 e avevo guidato per sei ore da Sydney. A quasi sei ore anche da Melbourne, e una manciata di ore da Canberra, Griffith è situata nell’entroterra australiano dove sterminate valli abbracciate da agrumeti e visitate da pochi, pochissimi turisti, ogni giorno rinnovano la promessa di pace e di quieto vivere alla popolazione locale. La Riverina Valley è conosciuta per la qualità dei suoi vini, la ricchezza dei prodotti della sua terra e, storicamente, anche per i cosiddetti castelli d’erba, the grass castles. “Erba” è da intendersi come cannabis, naturalmente.
Un gruppo di famiglie calabresi, migrate tra la metà degli anni ’40 e gli anni ’60, si erano portate dietro il know-how della ’ndrangheta calabrese – allora acerba eppure già ben delineata nei suoi tratti identitari – e si erano negli anni arricchite comprando terreni e arrivando, negli anni ’70, a gestire oltre 22 piantagioni di cannabis sul territorio.
Una celebre commissione d’inchiesta sul fenomeno della produzione e distribuzione di narcotici nel Nuovo Galles del Sud, guidata dal giudice Williams, investigò a cavallo tra il 1978 e il 1982 «l’influenza criminale italiana» nella Riverina Valley e vi trovò «un’organizzazione che comprendeva quasi esclusivamente persone di origine e discendenza calabrese, 22 di Platì e 18 di altre zone della Calabria» che tra Sydney e Griffith, «dominavano il mercato di coltivazione, traffico e distribuzione della cannabis». L’organizzazione, disse la relazione finale della commissione d’inchiesta Williams, rispondeva a un certo Antonio “Tony” Sergi, di professione viticoltore, mentre la gestione dei traffici di cannabis faceva capo a un certo Robert(o) “Bob” Trimboli (nel report Trimbole).
Un anno e mezzo dopo quel viaggio avrei riletto ne La Santa Violenta, il libro che mio padre, Pantaleone Sergi, scrisse nel 1991 – uno dei primi testi sulla mafia calabrese - del le cronache del tempo e di Robert Trimboli, «il quale per gli inquirenti di mezzo mondo è stato il vero cervello dei traffici di droga in quel continente», originario di Platì che «non aveva mai tagliato i ponti con i mafiosi del paese d’origine» e anche «proprietario di uno yacht provocatoriamente battezzato “Cannabis”». Quelle cronache, quelle pagine, dopo aver visto di persona quei luoghi in Australia, ripresero improvvisamente vita.
Ne La Santa Violenta si legge infatti dell’Australian Connection e dell’omicidio di Donald McKay, attivista e politico di Griffith, il cui corpo sparì nel 1977 (e mai fu ritrovato) che a oggi è uno dei cold cases, casi storici ancora aperti, più famosi d’Australia. Nel libro del 1991 mio padre raccontava che «i personaggi inquisiti nel processo erano tutti originari di Platì: boss e gregari dei clan dei Sergi, dei Barbaro e dei Trimboli che avevano impiantato grandi piantagioni clandestine di marijuana nelle ampie e rigogliose distese australiane». Dal lato della Locride, negli anni ’80, si indagava intanto di come le cosche di Platì, San Luca e Africo, dedite ai sequestri, avessero deciso di investire in droga i miliardi strappati alle famiglie dei rapiti.
La storia della ’ndrangheta australiana si impara partendo da questi eventi, dalla storia della migrazione criminale nel Nuovo Galles del Sud. Ma è necessario contestualizzare la storia che si legge nelle cronache del passato, in un libro come La Santa Violenta, per capire come dal passato ci si ricolleghi al presente. È necessario saper leggere la storia, e viverne i luoghi per capire davvero quello che avevamo letto come cronaca in diretta, per comprendere anche perché quella cronaca in diretta era così rilevante.
Quando mi recai a Griffith sapevo già che è ancora lì che i clan mantengono la base reale del potere mafioso, quella fatta di cognomi storici e accreditati, alleanze matrimoniali, usi, rituali e costumi che ancora fanno l’occhiolino alla ‘ndrangheta e alla Calabria di ieri e di oggi. Eppure dovevo viverle di persona, Griffith e la sua storia, per capire le ‘ndranghete di ieri e di oggi, sia in Australia che in Calabria.
Come scriviamo oggi ne La Santa ‘ndrangheta. Da “violenta” a contesa”, «le pagine di chi la storia l’ha scritta in diretta “servono” per futura memoria di chi, come me e come tanti altri che oggi ricercano, analizzano e discutono di questi temi». Assumono dunque significato diverso oggi, per me, le parole scritte ne La Santa Violenta nel 1991, tra le pagine dedicate al sequestro di Cesare Casella e a sua madre Angela Montagna, in Calabria a chiederne la liberazione tra il 1988 e il 1990: «Una ragazza guarda mamma Angela incatenata. Non capisce. Si chiama Lisa Perre. È arrivata da pochi giorni dall’Australia. Ha ventidue anni. Suo padre e sua madre, che è accanto a lei, hanno lasciato Platì quarant’anni fa. Lo sa cosa è la mafia di Platì? “Dicono che c’è la mafia a Platì”, risponde imbarazzata, “io l’ho letto in Australia”».
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