“Qui non siamo a Rosarno” è la risposta che si sente più spesso, quando in Lombardia si prova a chiedere se esiste il caporalato o, più genericamente, lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Una percezione largamente diffusa, che associa il fenomeno alla distesa di ghetti e baracche o a una mentalità truffatrice, tipicamente meridionale. E che invece, come dimostra l’ultimo rapporto dell’Associazione Terra! “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia” realizzato con il sostegno della Fondazione Cariplo, ha poco riscontro con la realtà.

Questo succede perché il caporalato non può essere letto, come spesso accade, come un fenomeno migratorio, ma come la risultante delle distorsioni che animano il mercato agroalimentare, dominato dalla Grande distribuzione organizzata (Gdo) che, in modo diretto o indiretto, stabilisce i prezzi di tutta la filiera, determinando anche il costo del lavoro.

Un fenomeno ancora necessario. Per capire il perché basta guardare all’assenza di servizi e delle politiche pubbliche, attive e passive. Sono queste le ragioni che, come Associazione Terra!, ci hanno spinto a leggere il fenomeno da nuove latitudini, con un report dedicato alla Lombardia, curato sul campo da un team di giornalisti, che ha macinato chilometri tra le province di Mantova, Bergamo, Brescia e Cremona, indagando l’impatto sociale e ambientale delle filiere dei meloni, delle insalate in busta (la quarta gamma) e dei suini.

Un’inchiesta sul campo, che alla luce della recente crisi energetica, racconta l’insostenibilità sociale e ambientale dell’attuale modello di produzione del cibo, nella regione che con i suoi 14 miliardi di euro di produzione, è la prima in Italia nel settore agroalimentare.

Indagare le nuove sembianze dello sfruttamento intrecciandole al modello produttivo è il lavoro che Terra! porta avanti ormai da anni. E farlo in una delle regioni che presenta il più alto numero di procedimenti giudiziari per caporalato, è ancora più necessario. È di poche settimane fa l’accusa di somministrazione illecita di manodopera al colosso della distribuzione Esselunga.

Dall’approvazione della legge anticaporalato nel 2016 qualcosa è certamente cambiato, ma il caporalato ha dovuto trovare nuove fattezze evolvendosi in cooperative, società e agenzie, che sembrano lavorare in un quadro di legalità, seppur somministrando manodopera senza rispettare gli appalti e i contratti collettivi nazionali.

Ma se sono più raffinati i tentativi di aggirare i controlli, i motivi per cui si ricorre alla intermediazione sono gli stessi da anni: coprire i picchi produttivi, che in alcune delle filiere analizzate sono frequenti, rendere più flessibile la manodopera, ovvero creare le condizioni affinché i rapporti di lavoro cessino appena termina il fabbisogno dell’azienda, tagliare i costi del lavoro. Ecco perché Terra! nel report, propone di attuare azioni che valorizzino la catena del valore; di introdurre norme ad hoc sulle cooperative; di rafforzare misure ispettive e di approvare un piano regionale di contrasto allo sfruttamento.

Il secolo dei meloni

Con le sue 90mila tonnellate, la provincia di Mantova è il primo polo produttivo di meloni in Lombardia, la seconda regione italiana per volumi dopo la Sicilia. Da marzo a ottobre, le aziende devono muovere lavoratori al massimo della velocità. Quasi la metà della forza lavoro è di origine straniera. Sono indiani e marocchini, perlopiù stanziali, anche se di recente stanno subentrando i lavoratori dell’est Europa, più sfruttabili e più ricattabili.

Nella zona che alla fine dell’ ‘800 vide la nascita delle prime Leghe bracciantili dalle rivolte dei contadini che reclamavano salari più giusti, i rapporti di lavoro possono essere regolati da contratti in grigio o da cooperative spurie (o senza terra).

Parziale registrazione delle effettive giornate lavorate (in genere mai più di 180, così da poter accedere alla disoccupazione agricola) o restituzione in contanti di parte del salario. E poi ci sono le cooperative, che apparentemente forniscono ai lavoratori una grande quantità di servizi, ma nella realtà o trattengono una quota che le aziende versano per pagare i lavoratori o collaborano con queste per elargire meno denaro in busta paga.

Eppure istituzioni, associazioni, sindacati e aziende di zona stanno provando a cambiare le cose. Ne è un esempio il Tavolo della buona agricoltura, un’iniziativa lanciata dal comune di Sermide nel 2015 sottoscritta anche dalle aziende afferenti al Consorzio di tutela del melone Igp, con cui si è cercato di far funzionare quello che prima non c’era, ossia i servizi: trasporti, alloggi e lavoro. Un lavoro che sembra continuare, con un’attività di contrasto nata da un accordo con la cooperativa Lule Odv, che si occupa di fare emergere situazioni di irregolarità nella provincia.

La fabbrica di insalate

Terra!/Culmone

Le province di Bergamo e Brescia sono costellate di serre e industrie di trasformazione, in cui si producono le insalate in busta che troviamo pronte all’uso nei reparti frigo dei supermercati. Sin dagli anni ‘80, il settore è praticamente esploso e successivamente la produzione si è estesa anche alla Campania, nella Piana del Sele, oggi secondo polo produttivo.

Il nesso tra produzione agricola, trasformazione e logistica è la chiave per comprendere il successo ma anche la recente crisi di questo comparto. I capannoni di trasformazione sorgono accanto alle serre agricole. I ritmi di produzione sono serrati per soddisfare le richieste just in time della Gdo: gli ortaggi sono lavorati e imbustati entro 48 ore dalla raccolta nei campi e spediti alle piattaforme logistiche delle catene distributive. Si produce così tanto che alcune aziende hanno introdotto gli orari domenicali e serali per far fronte alla domanda. Fine produzione mai insomma e gli effetti su lavoro e ambiente sono tangibili.

Mentre sui campi il lavoro, svolto prevalentemente da indiani Sikh che vivono a ridosso dei grandi complessi industriali, è perlopiù meccanizzato, negli impianti i ritmi sono estenuanti. Qui ogni impresa applica un contratto diverso per i lavoratori e le lavoratrici alle dirette dipendenze, nonostante il comparto produttivo sia lo stesso. È il lavoro, bellezza!Il ricorso a cooperative o agenzie per il lavoro che subappaltano ad altre società avviene nei momenti di massima intensità produttiva.

La terra dei suini

PH Terra!/Giovanni Culmone

“Qui ci sono più maiali che esseri umani” è una frase che ritorna spesso in provincia di Brescia e che ben racconta come il 50 per cento dei capi suini presenti su tutto il suolo nazionale, oltre 4 milioni stipati in 6.747 allevamenti, sia allevato proprio qui in Lombardia. La filiera suinicola è considerata un’eccellenza del made in Italy, in particolare la produzione di prosciutti.

Eppure la frammentazione in tante imprese – allevatori, macellatori e trasformatori – si riversa sulle fasi della commercializzazione, dove a prevalere è sempre la Grande distribuzione organizzata, che detta i prezzi. In una filiera così parcellizzata, costretta a mantenere bassi i costi di produzione, l’esternalizzazione del lavoro a cooperative o agenzie di somministrazione a volte è la regola.

Il 50 per cento della forza lavoro impiegata nel comparto è di origine indiana, ghanese, cinese ed est europea. A chi lavora nelle cooperative, a prescindere dalla mansione, si applicano perlopiù contratti nazionali, come quello della Logistica o quello delle Pulizie o Multiservizi, che però prevedono 4-500 euro in meno del Ccnl dell’industria alimentare.

Eppure i dipendenti dell’azienda e delle cooperative svolgono spesso lo stesso ruolo, ma con tagli netti al salario in caso di malattia e con il rischio di restare a casa se c’è meno lavoro. Una esternalizzazione sempre a danno dei lavoratori più deboli. Un modello insostenibile tout court, per i lavoratori, per l’ambiente e per gli animali allevati, che Terra! ha potuto vedere da vicino con Essere Animali, entrando in alcuni allevamenti.

© Riproduzione riservata