Dalla macellazione contadina ai moderni sistemi di produzione di salami e prosciutti: del maiale non si butta via niente, nemmeno i riti. C’è chi aspetta ancora il freddo invernale per creare una comunità in cui ciascuno ha un ruolo intorno al sacrificio più alto dell’animale
Se la colomba è l’animale simbolo della pace, c’è una creatura capace di aggregare famiglie e amici attorno alle sue carni in modo ancora più efficace, pacificando gli animi. Generoso e altruista, il maiale offre tutto sé stesso nella maialatura. Sotto questo nome vanno tutte le operazioni necessarie alla macellazione e trasformazione del maiale.
Richiedeva tanta manodopera, ricompensata con cicciolata e altri bocconi prelibati. Grazie al sacrificio dell’animale la dispensa si riempiva di tanti prodotti da consumare e con cui festeggiare durante l’anno. Zamponi e cotechini per le festività invernali. Capocolli per la raccolta del grano. Cervello e coppa arrostiti durante i giorni cruenti della maialatura.
L’industria si è fatta garante della salubrità del processo e di prosciutti e salami, abbassando la temperatura di parole ed emozioni attorno al sacrificio degli animali. Con esse sembra sbiadita anche l’importanza del non sprecare nemmeno le setole del maiale, figuriamoci la carne.
Tuttavia, c’è chi aspetta ancora il freddo per accendere il fuoco e dare forma a salsicce e culatelli. Per chiedere al maiale il sacrificio più alto, celebrando con la maialatura l’inverno, il sole che torna a crescere e i legami comunitari.
La maialatura contadina
A Parma e provincia si compara la musica di Giuseppe Verdi al maiale. Sia degli spartiti del maestro sia del corpo del niente va buttato. Nel caso del maiale, anche ossi e setole si trasformano. Dai primi si ricavano bottoni e dadi da gioco. Le seconde sono usate per gli spazzolini da denti. Paolo Maria Adamasi, figlio di imprenditori agricoli di Gainago di Parma, lo racconta nel libro La Maialatura (Tlc). Ricordi antichi, ma che in alcuni casi sopravvivono alla cavalcata delle automazioni.
Tutto inizia col freddo, quello vero, tra novembre e gennaio. Si preparano gli ambienti, gli strumenti, l’acqua calda da tenere sempre a disposizione. Si predispongono gli animi, che devono essere forti per sostenere il passaggio del maiale a “miglior” vita. «Il benessere degli animali è cruciale – racconta Adamasi – Il maiale allevato con attenzione dà una carne migliore. Per questo, anche nell’ultimo atto della sua esistenza, bisogna fare attenzione a non farlo soffrire».
Nel suo ultimo giorno di vita, ironia della sorte, il maiale è tenuto a digiuno per iniziare a ripulire stomaco e visceri, destinati a diventare il budello del salame.
Nel grande giorno d’inizio della maialatura entra in scena il norcino. È lui che toglie la vita al maiale. Coordina gli aiutanti, bambini compresi, per far sì che l’atmosfera festosa non danneggi pulizia, taglio della carne e concia. Adamasi racconta di un incontro “furioso” tra norcino e maiale. Il primo deve essere lesto a conficcare un rampone nel collo e lo stiletto nel cuore dell’animale per poter togliere la vita senza farlo soffrire. La lama è lunga 30 centimetri. Va a recidere le arterie e provoca un rapidissimo dissanguamento. In questo modo, le carni restano bianche e pure.
Oggi la legge richiede pratiche rispettose del dolore dell’animale. Non permette la morte per dissanguamento, anche se la voglia di sanguinaccio può portare anche a uno stile di macellazione più cruento. In questo caso, si usa un ferro sottile con una punta acuminata a forma di lancia.
Lo si conficca nel cuore del maiale, rigirandolo velocemente per recidere le arterie. Il sangue così invade la gabbia toracica, provocando una morte più lenta e dolorosa. Ma, esalato l’ultimo respiro e inciso il punto, il sangue sgorga copioso. Viene raccolto in un recipiente di terracotta.
La maialatura è fatta anche di suoni. Le grida dei bambini. Le parole concitate degli uomini impegnati con la carne. I mormorii delle donne che, leste, puliscono e cuciono attorno al fuoco le budella per vestire i tagli più pregiati da conservare. Ma c’è un suono che chiunque assista alla maialatura non dimentica. «Nel nostro dialetto il lamento del maiale colpito al cuore si chiama alsiga. Né un grugnito né un grido, ma un lamento che annuncia il dolore della consapevolezza dell’animale di essere prossimo alla morte».
Poi c’è l’acqua, bollente e abbondante, per pelare, sciacquare e purificare l’animale. Durante l’eviscerazione si tolgono intestino, esofago e stomaco. Si prelevano lingua, trachea, polmoni, fegato e cuore. Dopo un lavaggio accurato, queste parti vengono appese all’aria, ad asciugare.
A questo punto il maiale perde la sua identità: è diventato solo carne. Segue la squartatura, che darà origine alle mezzene. Il norcino incide la parte posteriore, dal codino alla testa. Da quest’ultima asporta il midollo spinale e il cervello, subito impanato e fritto nello strutto per offrirlo come merenda ai bambini. L’ultima attività del primo giorno consiste nel preparare i tagli delle carni. Si stacca la massa adiposa interna e se ne ricavano sugna e lardo. Si mettono da parte prosciutti, lonze e spalle.
Se ne ricavano i pezzi da appendere per evitare che si appiattiscano. Segue un giorno di riposo. Dopo di che si ricomincia molto presto per preparare la cicciolata e accogliere il macellaio che dovrà plasmare spalle, pancette, prosciutti, culatelli e fiocchetti.
Tradizioni e superstizioni
C’era solo un giorno in cui – almeno nel parmense – nessuno osava macellare: il 17 gennaio. «Sant’Antonio Abate è il protettore di macellai, salumai, norcini, canestrai e animali domestici. Presente in tutte le stalle, è ritratto con accanto un maiale che gli lambisce il saio. Chi avrebbe osato uccidere quel simbolo di santità nel giorno del suo patrono?», spiega Adamasi.
Eppure, c’è chi aspetta proprio quel giorno per questa ragione: farsi assistere dal santo nella maialatura. In Calabria c’è solo un “comandamento” da osservare durante la maialatura. «Quando si toglie la vita al maiale, non si deve dire “peccato”, altrimenti la morte rallenta e lui soffre. Niente sensi di colpa: l’animale è stato cresciuto per il fabbisogno della famiglia e lui sta dando la vita per noi», spiega Saverio Iacoi, detto Fifì, imprenditore agricolo di Longobucco (Cs).
Alleva capre rustiche calabresi in via d’estinzione, ma la macellazione del maiale resta una festa da celebrare con la frissurata, uno spezzatino fatto con pezzi di carne vicini al collo (là dove viene agganciato il rampone), conditi con origano e vino. «Bisogna accettare e onorare il sacrificio, creando i migliori salumi che la mano dell’uomo sa fare».
Da un maiale di circa 230 chili si ottengono sanguinaccio, salsicce di carne e di fegato, capocollo, prosciutti, pancetta, lardo, ventricina, culatelli, fiocchetti. Dal grasso si ricava lo strutto, utilizzato in cottura al posto dell’olio. Ogni regione, poi, ha il suo prodotto speciale legato al suino. Ad esempio, in Lunigiana, tra Liguria e Toscana, si prepara il chiodo.
Per offrire una pausa al norcino, durante la maialatura si prendeva un po’ di impasto di salsiccia o di mortadella e lo si faceva cuocere sul testo di terracotta. La cicciolata, Pat dell’Emilia Romagna, si realizza dall’unione della carne della testa e dai ciccioli di grasso, ottenuti dalla cottura della cotenna.
A Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino, si prepara la nnoglia o doglia di maiale, fatta dalle parti grosse e spesse dello stomaco e dell’intestino dell’animale sottoposti a pressatura, affumicatura e stagionatura di circa 20-30 giorni. In Calabria nascono alcuni degli usi più creativi della carne suina. La nduja ne è un esempio. «A Longobucco, e solo qui, si prepara u sacchiettu, il sacchetto – racconta Iacoi – Questo presidio Slow Food si ottiene dai muscoletti delle zampe anteriori del maiale, macinati e insaccati nuovamente nella stessa cotenna. Il nome deriva dal fatto che questa parte è poi ricucita, assomigliando a un sacchetto».
Un altro prodotto della zona è la finninnula. Si prepara con del lardello (grasso e pancetta) più le interiora (polmone e cuore), pepe dolce, sale, peperoncino. Una volta insaccato il tutto, viene anche usato per farci la minestra.
Tra i salumi più noti c’è anche il capocollo di Martina Franca. Simbolo della Valle d’Itria, il salume pugliese è preparato nell’areale della città che ne dà il nome e nei comuni di Cisternino e Locorotondo. Con il termine capocollo si indica la coppa, la parte del maiale che si trova tra collo e costata. Secondo la tecnica norcina tradizionale, risalente al Settecento, i pezzi sono posti a macerare sotto sale per 15-20 giorni. Poi si lavano con una preparazione a base di vino cotto, ottenuto dall’unione di mosto cotto, vino da Bianco d’Alessano e Verdeca, più le spezie.
Si insacca la carne in budello naturale di maiale e si avvolge in panni di lino o cotone. L’affumicatura, che dà al capocollo il suo caratteristico profumo, si fa con legno di fragno, la quercia più diffusa nella zona, e il mallo di mandorla bruciati insieme per due giorni. Tra i nomi che spiccano nella creazione di questo presidio Slow Food e dell’Associazione Produttori Capocollo di Martina Franca, c’è quello di Giuseppe Santoro, creatore dell’omonimo salumificio di Marinelli (Br).
Appassionato di carni e macelleria sin da ragazzo, nel 2000 dà vita all’azienda che in Puglia ha reso la maialatura un mezzo per ridare nuova dignità agli allevamenti. Inoltre, ha spinto per recuperare una razza quasi estinta come il suino nero appulo lucano, allevato allo stato semi-brado. Angela Santoro, responsabile marketing e comunicazione, non ha mai assistito alla macellazione del maiale, ma ricorda i racconti da papà Giuseppe.
È ancora lui a scegliere i capi da macellare nelle stalle dei sei allevatori parte della comunità Suni della Valle d’Itria. Si allevano incroci dei maiali bianchi Large White, Duroc e Landrace. Il suino nero dà rese inferiori, ma di qualità superiore. «Abbiamo cercato di dare al capocollo di Martina Franca una dimensione che andasse oltre l’areale comunale. Inoltre, abbiamo lavorato per far capire l’importanza di un certo tipo di allevamento, offrendo per gli animali un prezzo superiore rispetto al mercato, e coinvolgendo gli allevatori nella comunicazione.
Portiamo sempre i giornalisti nelle aziende agricole per far arrivare anche a loro la risposta del mercato ai nostri sforzi. Tutto questo lavoro ci ha portato ad avare sostenibilità ambientale – non ariamo i terreni, ci pensano i suini – economica, ma anche comunitaria. Ai maiali cerchiamo di offrire una vita degna di essere vissuta, dando loro il massimo della dignità nella rivendita di un prodotto che onora il sacrificio dell’animale».
I numeri dell’industria
Oggi nei moderni macelli la temperatura e l’umidità sono tenute sotto controllo elettronico. Questo permette di macellare maiali per tutto l’anno, disperdendo le tempistiche contadine in favore di una maggiore salubrità di prodotto, meno fatica (e meno emozioni) da parte di tutti gli attori coinvolti.
Maiale compreso. Infatti, oltre a disciplinare la macellazione domestica, il legislatore individua nello stordimento elettrico il metodo migliore per l’abbattimento dei suini . Solo dopo questo atto – ben diverso dall’esercizio di nervi e muscoli dei norcini – si passa alla sbollentatura per eliminare le setole e avviare il maiale in catena per il sezionamento della carne. Secondo i dati del Registro Italiano Filiera Tutelata, i suini DOP macellati nel 2022 sono stati 7.845.283, con una diminuzione del 4,96 per cento rispetto all’anno precedente. I capi portati al macello sono stati 6.857.341 confermando il trend in discesa (-12,59 per cento). In Italia il numero di suini allevati fino a dicembre 2022 è 8.739.384 su un totale di 26.197 aziende (dati Istat). Incrociando dati Ismea e Istat, l’allevamento dei maiali in Italia produce un fatturato di 3,5 miliardi di euro.
Aggiungendo quello prodotto dell’industria alimentare legata al mondo suinicolo – 8,5 miliardi di euro – nell’insieme il settore genera 12 miliardi di euro. «Mezzo punto del Pil nazionale» spiega Elio Martinelli, presidente Assosuini. Se anticamente ci si limitava a far spazzolini da denti e bottoni da setole e ossa, i processi industriali hanno saputo valorizzare ancora di più il prodigo animale, che oggi contribuisce alla creazione di biodiesel, pet food, fertilizzanti, impieghi farmaceutici come la produzione di plasma e persino gelatina per prodotti dolciari.
Negli ultimi settant’anni a cambiare non è stato solo il clima, con inverni sempre meno adeguati alla maialatura. È cambiata anche la temperatura delle parole usate dall’industria, che parla di macellazione e mai di uccisione del maiale. Che ha contrapposto a un’idea romantica dell’animale allevato dalla famiglia, una più corretta gestione di liquidi e odori della pratica di allevamento.
«Con il boom economico c’è stata una contrazione del numero di suini allevati a livello domestico, a fronte di una specializzazione e contrazione dei centri di crescita e macellazione – spiega Martinelli – Ha portato ad ambienti più salubri per la vita dei maiali, a un’alimentazione adeguata e bilanciata, dando origine a una carne più adatta all’alimentazione umana. Gli allevamenti industrializzati hanno ridotto le emissioni di gas serra del 15 per cento e di ammoniaca del 20 per cento. Si può avere la percezione che il maiale cresciuto dalle famiglie contadine sia meno impattante, ma calcolato per unità di prodotto, è esattamente il contrario, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei reflui».
Inoltre, le norme europee definiscono lo spazio vitale necessario al maiale, che va da mezzo metro al metro e mezzo quadrato in base al peso. «Il suino è un animale che ha bisogno di socialità: fa gruppo nel box di allevamento. Quindi è corretto avere un certo numero di animali per box, definito per superficie e per arricchimento ambientale, disponibilità di abbeveratoi e mangiatoie. Si cerca di aumentare l’interazione con gli altri simili attraverso dei giochi». Proprio come quelli dei bambini.
Ma che fine ha fatto quel piccolo mondo antico che riuniva amici e parenti vicini e lontani attraverso la maialatura? Forse è scomparso assieme alla civiltà contadina, di cui il racconto mediatico cerca di tenere ardenti le braci. Secondo Martinelli quel mondo vive nei ricordi. Non ci chiediamo più da dove viene il cibo che mettiamo nel carrello del supermercato. E ciò vale sia per il salame sia per le carote. Con buona pace dei Qr code e della blockchain.
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