- La nuova indagine dell’Istat sulla sicurezza delle donne in Italia doveva partire proprio in queste settimane. E invece rischia di vedere la luce solo nel 2023, a quasi dieci anni di distanza dalla precedente.
- Il bando di gara per il progetto è bloccato di fronte alla giustizia amministrativa. Intanto, l’ultima indagine risale a quasi dieci anni fa. Secondo la sociologa Flaminia Saccà «è urgente un monitoraggio costante su soggetti e gruppi maggiormente esposti».
- La produzione di statistiche regolari sulla violenza di genere sarebbe un obbligo, per l’Italia: richiesta dalla Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2013, e prevista dal piano strategico nazionale contro la violenza maschile sulle donne.
La nuova indagine dell’Istat sulla sicurezza delle donne in Italia doveva partire proprio in queste settimane. E invece rischia di vedere la luce solo nel 2023, a quasi dieci anni di distanza dalla precedente. Bloccata (come spesso accade in caso di bandi pubblici) da ricorsi davanti alla giustizia amministrativa. «Ma se un problema non è conosciuto, non viene affrontato», dice Flaminia Saccà, professoressa di Sociologia dei fenomeni politici all’Università La Sapienza di Roma. E questo, di problema, colpisce una donna su tre in tutto il mondo. Numero che in Italia veniva confermato dall’ultima indagine Istat, nel 2014. «Una fetta di popolazione che andrebbe monitorata di anno in anno», ragiona Saccà.
Obbligo italiano
La nuova indagine sarebbe dovuta partire già nel 2018, ma già allora è rimasta incagliata in lungaggini amministrative. Ora l’avvio era atteso in queste settimane, con i primi dati disponibili nella primavera del 2023. Non andrà così.
Eppure la produzione di statistiche regolari sulla violenza di genere sarebbe un obbligo, per l’Italia: richiesta dalla Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2013, e prevista dal piano strategico nazionale contro la violenza maschile sulle donne. Il primo monitoraggio complessivo dell’Istat risale al 2006, seguito solo dall’indagine del 2014. Di decennio in decennio, anno più, anno meno.
«Senza la disponibilità di dati costantemente monitorati e resi pubblici, il problema non entra nel dibattito», prosegue la docente. «A cascata, neanche le istituzioni ci mettono mano. O lo fanno in maniera frammentata». Come se avessero davanti una fotografia fuori fuoco. «Non è un caso che l’Italia venga condannata in Europa perché non applica le leggi o perché sottopone le donne a rivittimizzazione secondaria, senza di fatto tutelarle come la Convenzione di Istanbul richiede».
I dati aiutano
La violenza contro le donne è un fenomeno «molto complesso da misurare. È causa e al tempo stesso conseguenza delle disuguaglianze di genere nella società», ha spiegato a marzo Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche dell’Istat, al convegno “Conoscere per decidere: l’attuazione del piano nazionale sulla violenza di genere contro le donne attraverso i dati”.
«Avere statistiche comparabili e accurate è fondamentale per comprenderne le varie sfaccettature e per portare avanti politiche e misurarne l'efficacia». I dati di un’indagine di questo tipo sono di difficile reperibilità e necessitano di un panel esteso: il problema «coinvolge moltissime donne di diverse fasce d’età ed è trasversale socialmente», aggiunge Saccà a Domani.
Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione, ha bandito a ottobre 2021 il bando di gara per la conduzione e gestione di interviste Capi/Cati (di persona e telefoniche) per l’indagine statistica sulla sicurezza delle donne per Istat.
Contro l’aggiudicazione definitiva non efficace di marzo al costituendo Rti Mg Research S.r.l. fa ricorso, al Tar del Lazio, la seconda classificata, Centro Statistica Aziendale S.r.l. Il Tar accoglie, Consip a sua volta impugna in via cautelare al Consiglio di stato, che però non accoglie. L’indagine nel frattempo resta al palo.
Domande senza risposte
«L’Istat ha stimato anni fa che solo un caso su dieci arriva a denuncia. C’è stato un aumento? No? E se anche sapessimo quante sono le denunce, sarebbe comunque di un dato parziale. Che succede dopo? Che tipi di pena vengono comminati? Non tutte le denunce poi vanno a sentenza. È una nebulosa che non conosciamo».
Sui femminicidi poi «c’è tutta una letteratura internazionale, ma in Italia le procure li cristallizzano come “omicidi di donne per mano maschile”. Anche perché il femminicidio non è codificato come reato», dice ancora la docente.
Saccà è stata responsabile scientifica del progetto Step dell’università degli studi della Tuscia con l’associazione Differenza donna sugli «stereotipi e i pregiudizi che colpiscono la donna vittima di violenza in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nella stampa».
Il progetto ha studiato «come venivano raccontati i fatti sia in tribunale, analizzando 282 sentenze, che sulla stampa, lavorando su 16.715 articoli su 15 testate nazionali dal 2017 al 2019. I casi di violenza domestica riportati sulla stampa erano solo il 14 per cento», dice Saccà. «A proposito di quanto poco emerga il tema. Se mancano i dati non viene lanciato l’allarme sociale e c’è una certa normalizzazione».
L’indagine, quando partirà, prevede anche interviste mirate a donne straniere. «La violenza ha livelli di intersezionalità notevoli», conclude Saccà. «Ed è favorita da una situazione di minori diritti. È molto più frequente di quanto non si immagini per esempio tra donne anziane e portatrici di handicap. Sarebbe urgente un’analisi puntuale e con un monitoraggio costante su soggetti e gruppi maggiormente esposti».
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