Ha lasciato Trigoria con l’aria cupa di chi sognava un altro destino, un futuro diverso. Più bello, più lungo. Forse il problema non era Daniele De Rossi, né il suo metodo di allenatore o il suo credo tattico. Ma Roma, la città, la sua essenza. E quella capacità unica e straordinaria di rapportare ogni cosa all’eterno. De Rossi lo sapeva, ha sempre saputo anche lui che non sarebbe durata. Persino mentre sceglieva di misurarsi con la sfida più grande della sua vita: allenare il club che lo ha cullato, cresciuto, e poi fatto diventare grande. Casa sua.

A gennaio aveva preso il posto di Mou, il tecnico più vincente del calcio. E lì si era già capito che qualcosa strideva. Però De Rossi è sempre stato un coraggioso, le sfide non gli hanno mai fatto difetto: «La Roma non si rifiuta. Non è una scelta per la nostalgia del passato. Voglio giocarmi le mie carte e ho chiesto di essere trattato da allenatore, non da ex giocatore. Me la giocherò fino alla morte per rimanere». Invece non è durata. Anzi, è finita prima del previsto. L’illusione covava in un rinnovo firmato da poco: tre anni in più di contratto, fino al 2027.

Mercoledì 18, in una mattina qualunque, lo hanno cacciato via. «Per l’interesse della squadra», hanno scritto con poco garbo nel comunicato. Come se De Rossi non facesse l’interesse della Roma. Al suo posto hanno preso Ivan Juric, che prima è stato sulla panchina di Mantova, Crotone, Genoa, Verona, Torino. Perché il calcio, figuriamoci, continua.

Essere fagocitati

Resta però un senso di impotenza in questo divorzio. Un divorzio banale, il primo della Serie A di inizio stagione (dopo appena quattro giornate di campionato). Banale sì, se solo si fosse consumato da un’altra parte, in un’altra città. Non a Roma, non con De Rossi. La Roma, ha detto una volta Daniele, «la amo troppo, viene dopo mia figlia. Non è ruffianeria. Quando segno non posso fare le orecchie alla Toni, non ci riesco. Mi viene da baciarla, la Roma, la maglia, tutto».

Se non ha trionfato l’amore ci sarà un perché. È la grandezza del luogo, che ha visto sfilare via papi, imperatori, artisti, uomini che hanno cercato la grandezza e alla fine si sono ritrovati fagocitati dall’Urbe e dalle sue leggi. Roma resta, il resto passa. La normalità non è ammessa.

«Noi dobbiamo ringraziare di essere romanisti anche dopo i 7-1, anche dopo aver perso in casa contro il Napoli giocando male… Io ringrazio sempre di essere nato romanista. Quindi ricordiamocelo quando le cose andranno peggio». È sempre lui, quello che da calciatore disse: «Ho un solo rammarico, poter donare alla Roma una sola carriera».

La via crucis

A Roma c’è sempre uno scopo più grande. E se sei romanista diventa quasi una missione, certe volte una via crucis. De Rossi cominciò la sua avventura giallorossa nel 2001, aveva appena diciotto anni. Per tutte le stagioni in cui ha giocato niente è stato mai lasciato al caso: ha gioito, sofferto, deluso, esaltato, e pure vinto. Sempre con la stessa maglia. Ben presto cominciarono a chiamarlo Capitan Futuro. Un soprannome che, ha detto lui, «non mi ha mai fatto impazzire, dalla prima volta che l’ho sentito».

Perché presupponeva qualcosa di là da venire. Trasformando un ragazzo cresciuto nel settore giovanile in un predestinato. Poi in un messia. Che ha però dovuto fare i conti con l’altro grande profeta de Roma, Francesco Totti. Colui che, in fondo, ha sempre rimandato la completezza del futuro di De Rossi. Quando Totti lasciò la fascia, a quarant’anni, la consegnò a Daniele.

«Anche i tifosi mi vedono come un simbolo di questa squadra e non c’è bisogno di avere una fascia al braccio per essere più felice». Lo stesso gli è successo da allenatore. Mister Futuro. Rimasto cristallizzato in un’attesa, De Rossi se n’è andato via da Trigoria a tutto gas, in macchina. Le strade eterne della sua città lo aspettavano, come sempre. La Roma non ha avuto la stessa pazienza, arriva un momento in cui non sei più futuro.

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