Si sta svolgendo in Vaticano il cosiddetto sinodo sulla sinodalità che si concluderà il 27 ottobre. La riunione – frammentata in piccoli gruppi – aveva avuto una prima fase l’anno scorso ed era stata preparata con sette assemblee continentali, che a loro volta avevano tirato le fila di una miriade di incontri iniziati nel 2021 in parrocchie e diocesi. Si tratta dunque di una grande consultazione che di fatto si prolungherà l’anno prossimo quando se ne tenterà un bilancio.

Il «sinodo dei vescovi», organismo episcopale consultivo istituito da Paolo VI nel 1965, poco prima della conclusione del concilio, è stato così progressivamente diluito e allargato – a preti e laici (donne comprese, dunque) – suscitando perplessità e critiche, in particolare tra i cattolici di rito orientale. Per loro e per gli ortodossi, infatti, i sinodi sono veri e propri strumenti di governo condiviso, sia pure con diverse variabili.

Le obiezioni

A queste fondate critiche per il metodo, che indebolisce di fatto la collegialità episcopale introdotta dal concilio Vaticano II, se ne aggiungono altre sul merito. Dai lavori di questi giorni filtrano infatti forti malumori sulla questione – sempre più di frequente riconosciuta come cruciale, soprattutto alla base – del ruolo della donna nella chiesa. A farsene eco è stato sull’ultimo numero del settimanale spagnolo Vida Nueva il direttore José Beltrán, perché le partecipanti al sinodo ritengono che si sia «congelato ogni cammino di riflessione sul diaconato femminile in questo pontificato».

Dopo aver costituito due successive commissioni per studiarlo, a sorpresa il papa ha infatti chiuso a questa possibilità il 24 aprile scorso in un’intervista alla rete statunitense Cbs. In questo modo il pontefice non dà seguito alle consultazioni da lui stesso promosse, ha detto al Times Lucetta Scaraffia, che all’ormai insostenibile ritardo sulla questione femminile nella chiesa aveva dedicato già nel 2016 un libro molto letto – Dall’ultimo banco (Marsilio, tradotto in francese, spagnolo e nederlandese) – frutto anche della sua partecipazione al sinodo sulla famiglia svoltosi l’anno precedente.

La prima traccia

Eppure la presenza delle diaconesse nelle comunità cristiane, pur molto dibattuta, risale alle origini. La prima menzione è infatti in uno dei testi più importanti di tutta la storia del cristianesimo, la lettera ai Romani, scritta da Paolo nell’anno 57, prima del suo arrivo nella capitale dell’impero. Nei saluti finali l’apostolo presenta infatti e raccomanda «Febe, sorella nostra, che è anche diacono della chiesa che è a Cencre», il porto di Corinto.

«Accoglietela nel Signore in modo degno dei santi e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno» continua Paolo, perché «ha protetto molti e me stesso». Febe, una cristiana benestante forse di origine pagana, è dunque colei che ha portato a Roma la lettera, dove più avanti compaiono i nomi di diverse donne: Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Patroba, Giulia, a smentita del diffuso luogo comune che vorrebbe l’apostolo misogino.

Molto si è discusso di questo primo diaconato femminile, minimizzato o all’opposto enfatizzato. Significativo in ogni caso è il più antico commento della lettera di Paolo, opera di uno dei maggiori biblisti di tutti i tempi, Origene, che lo compone verso il 243. «Questo passo – scrive l’intellettuale alessandrino nel lungo testo giunto per intero nella traduzione latina di Rufino, conclusa nel 406 – insegna con l’autorità dell’apostolo che anche le donne sono costituite nel servizio della chiesa (in ministerio ecclesiae)».

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Gli apostoli

Le diaconesse compaiono anche in un’altra lettera paolina, la prima indirizzata a Timoteo, e nel documento di un pagano, il rapporto sui cristiani scritto nel 111 o 112 per l’imperatore Traiano da Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, la regione dell’Asia minore più vicina al Bosforo. Proprio qui – e comunque in oriente – il diaconato femminile si mantiene, resistendo alla progressiva emarginazione che si registra invece nel resto delle comunità cristiane, soprattutto occidentali.

«Onorerete le diaconesse come lo Spirito santo» si legge nella Didascalia degli apostoli, scritta a metà del III secolo in Siria. Il loro ruolo – motivato da ragioni di prudenza – sembra comunque distinto da quello dei diaconi maschi: «Poiché vi sono delle case in cui non puoi inviare il diacono presso le donne a causa dei pagani, vi invierai le diaconesse» prescrive lo stesso testo. Oltre a occuparsi delle donne, le diaconesse dovevano essere presenti agli incontri di altre donne con vescovi, preti e diaconi, e la prassi indica con chiarezza il rischio di aggressioni da parte dei maschi.

I concili

Disposizioni tra loro molto diverse si trovano nei più antichi concili ecumenici, che si svolgono tutti in oriente con la partecipazione di rappresentanti del papa di Roma. In quello di Nicea del 325 si tratta delle diaconesse – ma forse in un contesto polemico nei confronti di un gruppo dissidente – e si ricorda «che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra i laici».

Il concilio di Calcedonia, svoltosi nel 451, riflette invece una situazione molto cambiata. Un intero canone è infatti dedicato alle diaconesse, che non devono essere ordinate – letteralmente, in greco, «ricevere l’imposizione delle mani» (cheirotonéisthai) – prima dei quarant’anni. Ma se una donna, «dopo aver ricevuto l’imposizione delle mani e avere esercitato per un certo tempo il ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia scomunicata insieme a colui che si è unito a lei».

In oriente le diaconesse vengono ordinate ancora nell’VIII secolo, e il rito prevede l’imposizione delle mani, la consegna della veste diaconale e del calice da portare all’altare. In occidente le diaconesse sono invece contrastate, al punto che tra la fine del IV secolo e la metà del VI una serie di sinodi in Gallia ne proibisce l’ordinazione, anche se in altri luoghi sopravvivono sino all’XI secolo. Tracce del rito mantenuto in oriente si riconoscono però nella cerimonia di ammissione in alcuni ordini monastici femminili medievali. Molti secoli più tardi una rinascita delle diaconesse si ha sorprendentemente tra i protestanti tedeschi, nel 1836 a Kaiserswerth e nel 1854 a Neuendettelsau, ma anche nel 1842 a Saint-Loup in Svizzera, da dove si estendono già nel 1845 ai valdesi italiani, che le mantengono fino al 1992. Altre comunità di diaconesse sorgono in ambito anglicano nel 1861 e poi tra i metodisti americani nel 1888.

Le diaconesse anglicane e protestanti vanno collocate nel contesto più generale di una riscoperta «cattolicizzante» delle esperienze comunitarie. Studiato ora da Gianparide Nappi (Il cammino della vita consacrata nelle Chiese luterane e riformate, Edizioni Biblioteca Francescana), questo tipo di nuovo monachesimo è minoritario – le comunità coinvolte sono comunque oltre duecento e le diaconesse decine di migliaia – ma è stato definito nel 2007 dal vescovo Wolfgang Huber «un tesoro nella chiesa evangelica» tedesca e deve molto all’esempio e all’influenza di un grande cristiano contemporaneo: Dietrich Bonhoeffer.

Irrisolto resta il diaconato femminile in ambito cattolico. Nel 2003 un lungo documento della Commissione teologica internazionale sul diaconato – elaborato dopo dieci anni di studio – non approfondiva realmente la questione, a cui erano dedicate solo poche pagine, ma riconosceva almeno con chiarezza il dato storico: «È veramente esistito un ministero di diaconesse che si è sviluppato in maniera diseguale nelle diverse parti della chiesa». Il timore, più che evidente e ribadito alla Cbs da papa Francesco, è che il riconoscimento del diaconato femminile apra alle donne la porta al sacerdozio. E a proposito del difficile nodo, che negli ultimi decenni non è stato sciolto né dalla Commissione teologica internazionale né dalle due commissioni da lui stesso costituite sulla possibilità di diaconesse nella chiesa cattolica, d’autorità Bergoglio ha tagliato corto: «Se si tratta di diaconi con gli ordini sacri, no, ma le donne hanno sempre avuto, direi, la funzione di diaconesse senza essere diaconi, no?».

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