Un’analisi realistica del ddl Valditara ci mostra che il suo obiettivo non è la riforma di un’istruzione tecnico-professionale in crisi di iscritti e di valore sociale a fronte della crescente licealizzazione. È piuttosto la dislocazione, per via al momento sperimentale, di parte di questi studenti dei tecnici e dei professionali (il 30% circa) in una filiera che ha come sbocco obbligato gli ITS: un progetto che è un salto nel buio
Ha trovato buona accoglienza il disegno di legge Valditara sull’istruzione tecnica e professionale. Non da parte degli istituti tecnici e professionali ancora silenti, ma dal mondo delle imprese. O almeno dell’associazionismo imprenditoriale, che spinge da tempo per un sistema di formazione professionale superiore in grado di moltiplicare nel mercato del lavoro i tecnici pronti all’uso che oggi scarseggiano. Il motivo è chiaro. Il disegno di Valditara è in sintonia con l’obiettivo. Ma realizzarlo non è una passeggiata.
Di formazione professionale superiore non hanno bisogno solo le aziende che stentano a trovare le figure che servono. È importante anche per molti dei giovani che a 14 anni, più per condizionamenti socioeconomici che in base ad effettive vocazioni (ma è possibile averne a quell’età?), vengono indirizzati ai percorsi che guardano al lavoro. Quei percorsi che molti nella scuola e fuori considerano di minor valore rispetto ai licei.
È da questa indebita gerarchizzazione che derivano popolazioni scolastiche diversificate per appartenenza sociale, provenienze, perfino per genere. I numeri lo confermano. Nel comparto tecnico-professionale sono sovrarappresentati i ragazzi con risultati scolastici modesti, quelli con background migratorio, disabilità, bisogni educativi speciali – come si dice in termini scolastici. Pochi i figli dei laureati. Negli indirizzi Stem i maschi sono più delle femmine.
L’antefatto fa il peggio: la convinzione che lì non si possano sviluppare le competenze che aprono la via a ulteriori studi. Sono una minoranza i diplomati tecnici (32 per cento) e professionali (13 per cento) che tentano, spesso senza concluderli, gli studi universitari. Iscriversi ai tecnici, ai professionali, alla formazione regionale (IeFP) si traduce per molti in una strumentazione culturale insufficiente, in abbandoni, e in tutto quel che ne segue. Peggio, manco a dirlo, nel Sud.
In questo quadro si è affermata l’idea che l’offerta di una formazione professionale superiore, post diploma – ma di durata più breve rispetto agli studi accademici – e focalizzata su apprendimenti in contesti operativi, possa da sola restituire valore a questo comparto scolastico modificando anche contorni, tratti, motivazioni dei suoi studenti, come accade in altre realtà europee. Certo, è possibile, bisogna provarci. Ma molto dipende dalla qualità e attrattività della nuova offerta. E moltissimo dai tempi e modi in cui si scelgono gli indirizzi di studio dopo la scuola media, da come la scuola secondaria di primo e secondo grado sviluppa le competenze di base, fa emergere interessi, vocazioni, motivazioni. Quindi moltissimo dipende da riforme che invece sembrano uscite dai radar della politica. A che punto siamo?
Vediamo il primo tema. A differenza di gran parte dei paesi europei che, fin dai Settanta e Ottanta del secolo scorso hanno risposto alla grande domanda dei giovani di accesso all’alta istruzione non solo con l’università ma anche con la formazione professionale superiore, da noi solo nel 2007 (governo Prodi) si sono fatti i primi passi istituendo gli Istituti tecnici superiori (Its). Ancora però disponiamo solo di un microsistema molto debole.
Come funziona altrove
Il recente Rapporto della Fondazione Agnelli evidenzia, nel confronto con Francia, Spagna, Svizzera, Germania, i tratti principali di questa debolezza, che persiste anche con la legge di riforma 99 del 2022 e fa ipotizzare il rischio che neppure con l’ irripetibile finanziamento Pnrr (1,5 mld) si possa realizzare l’obiettivo di una rapida moltiplicazione dell’offerta e della domanda. I 146 Its, presenti più nel Nord e nel Centro, hanno pochissimi iscritti – una media di 180 – in totale non più di 25mila studenti. Sono l’1 per cento dell’offerta formativa di livello terziario contro il 27 per cento in Spagna, il 30 per cento in Francia, il 40 per cento e oltre in Svizzera e Germania (dove gli iscritti sono 800mila).
Questo è un gap, che spiega in parte anche il nostro noto svantaggio in termini di titoli di studio di livello terziario nella fascia 25-34 anni e che è figlio non solo del nostro ritardo ma della decisione di puntare solo sugli Its, mentre altrove concorrono in modo importante altre linee di azione. Non si tratta solo dell’inazione delle università, che da noi hanno utilizzato pochissimo allo scopo le lauree triennali (con l’ eccezione di quelle per il personale sanitario non medico), ma anche delle scuole di specializzazione incardinate negli istituti tecnici, come le Sections des tecniciens superieurs (Sts) francesi e i ciclos formativos de grado superior spagnoli.
E pesano anche limiti intrinseci alle Fondazioni regionali che danno vita agli Its che ne ostacolano l’operatività, meccanismi di autorizzazione e finanziamento complicati dalla sovrapposizione di Stato e Regioni, incerte e variegate definizioni delle figure professionali in uscita in assenza di cogenti criteri nazionali, dipendenza dal variabile impegno politico e finanziario delle Regioni, eccetera.
Perfino il valore dei diplomi Its è ancora incerto perché il previsto livello Isced 5 del quadro europeo non è riconosciuto nei concorsi pubblici e neppure come crediti per percorsi accademici. Il risultato è che anche gli Its migliori per fertilità di rapporti col mondo produttivo appaiono come “monadi isolate”, in molti casi “trainati elusivamente dalle imprese”, poco visibili e poco attrattivi. Il che getta ombre sul vantato indice di occupabilità dei diplomati Its (vicino al 90 per cento, dice Valditara, ma chi l’ha certificato?) che potrebbe spiegarsi proprio coi loro limiti, il numero esiguo dei diplomati (6.500 nel 2021) e con curricoli indirizzati proprio agli specifici fabbisogni delle imprese partner. Parliamo insomma di una formazione à la carte pilotata dalle aziende: è di questo che abbiamo bisogno, o di un sistema che guarda alle linee di sviluppo del paese?
Obiettivo dislocazione
Tutto ciò è importante per un’analisi realistica del ddl Valditara. Il suo obiettivo non è la riforma di un’istruzione tecnico-professionale in crisi di iscritti e di valore sociale a fronte della crescente licealizzazione. È piuttosto la dislocazione, per via al momento sperimentale, di parte di questi studenti dei tecnici e dei professionali (il 30 per cento circa) in una filiera che ha come sbocco obbligato gli Its.
Ecco: la “quadriennalizzazione” degli istituti oggi quinquennali è finalizzata a rendere appetibile a giovani presumibilmente poco attratti da percorsi di lunga durata un percorso di 6 anni (4 di scuola + 2 di Its ) con titolo finale superiore al diploma di maturità. Sono numerosi gli interrogativi, di fattibilità e di impatto sull’intero sistema, che meriterebbero approfondimenti. Ma l’idea di un’autostrada per gli Its convince molti. E così anche altri contenuti del disegno Valditara. Tra cui l’affidamento a “campus” locali del coordinamento e integrazione in un’organica filiera dei vari pezzi del comparto oggi separati, incomunicanti e perfino concorrenziali ( come in alcuni contesti istituti professionali e IeFP regionale ). E poi anche quella di far girare attorno alla filiera tutto il possibile in termini di formazione e lavoro, anche quello che le imprese italiane non amano, ossia l’apprendistato di alta formazione.
Vedremo. I problemi sono tanti, anche di governance, visto che la guida nazionale dovrebbe essere tutto ciò dovrebbe essere una cabina di regia incardinata presso il ministero dell’istruzione, la solita soluzione centralistica che non funziona mai. Pende inoltre, al momento sottaciuta, una grande incertezza sulla disponibilità degli istituti tecnici e professionali a rivoluzionare curricoli e didattica, nonché a fare largo a docenti provenienti dalle aziende.
E soprattutto restano aperti i problemi di fondo. Perché il condivisibile intento di restituire valore e prestigio all’istruzione tecnico-professionale non può camminare solo sulle gambe di un sistema Its ancora tutt’altro che affermato. Dovrebbe passare anche dalla modifica dei dispositivi che sono la costituzione materiale della gerarchia degli indirizzi e delle diversità delle popolazioni scolastiche.
C’è bisogno, per far girare la ruota, di una popolazione studentesca del comparto più larga, più eterogenea, e comprensiva anche di studenti che oggi vanno ai licei. Che lo scelga non come un destino già scritto o come un ripiego ma in base a interessi e vocazioni, avendo l’età e gli strumenti per farlo. E qui si torna al punto. Il nodo della “scelta” precoce: un esame di stato inchiodato alla fine della scuola media mentre l’obbligo di istruzione è a 16 anni, ai due anni successivi come tempo per rafforzare le competenze di base e sviluppare le vocazioni. In sintesi, a ciò che da tempo non si vuole o non si è capaci di riformare. Puntualmente anche il ddl Valditara pretende di cambiare la scuola senza occuparsene.
© Riproduzione riservata