Una violenta guerra intestina, fomentata dall’ala stragista corleonese, con l’obiettivo di uccidere gli appartenenti alla famiglia di sangue Santapaola-Ercolano e la loro sostituzione al vertice della famiglia di Catania con il gruppo mafioso dei “carcagnusi”, capeggiati da Santo Mazzei. Questi ultimi erano divenuti i nuovi alleati dei corleonesi
Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.
Come abbiamo già raccontato ai lettori di Catania bene, la parte finale degli anni Novanta era stata molto burrascosa, specialmente dopo il suo [Nitto Santapaola, ndr.] arresto. Dopo il misterioso omicidio della moglie, Carmela Minniti – organizzato nel 1997 dal collaboratore di giustizia Giuseppe Ferone, senza un vero movente ma con il chiaro intento di creare lo scompiglio all’interno della mafia catanese – vi era stata una violenta guerra intestina, fomentata dall’ala stragista corleonese. L’obiettivo era l’uccisione degli appartenenti alla famiglia di sangue Santapaola-Ercolano e la loro sostituzione al vertice della famiglia di Catania con il gruppo mafioso dei “carcagnusi”, capeggiati da Santo Mazzei.
Questi ultimi, col consenso di Totò Riina, erano stati ammessi in Cosa nostra per volontà di Leoluca Bagarella e Vito Vitale quando ancora erano latitanti, e così erano divenuti i nuovi alleati dei corleonesi. Il Mazzei era stato “combinato” uomo d’onore già prima del 1992, mentre si trovava in carcere. Quando Nitto, che era ancora latitante, fu messo al corrente di questa novità non la prese tanto bene. «A Santo Mazzei lo facciamo entrare dalla porta e poi lo buttiamo dalla finestra appena troviamo qualche bidone dell’immondizia…» aveva detto con una battuta ai suoi fedelissimi, facendo trapelare la rabbia per quella scelta che gli era stata imposta, ma anche la preoccupazione per il carisma del Carcagnusu. Come a dire, gli alleati dei corleonesi li trattiamo col sistema dei catanesi: ce li lavoriamo a modo nostro e al momento opportuno ce ne liberiamo.
Ma quando nella seconda metà degli anni Novanta i “carcagnusi” attaccarono duro e lui era già detenuto, ci fu poco da scherzare. Per un attimo il regno tremò. Ma poi la famiglia Santapaola, rimanendo come sempre tutta unita, resse l’urto di quello scontro ed ebbe la meglio nella guerra sanguinosa che ne scaturì. Cosicché, ai piedi dell’Etna, Cosa nostra si ricompattò attorno ai congiunti di Nitto, mentre vennero eliminati fisicamente i “traditori” che avevano partecipato a quel complotto. E dopo la guerra i reduci del gruppo dei Mazzei, che oramai erano entrati in Cosa nostra per volontà dei corleonesi, rimasero in un limbo. Forti e temuti, ma ritenuti quasi come un corpo estraneo dentro la mafia catanese.
E così all’alba del 2000 iniziò il lento riassetto della organizzazione. I rapporti con i corleonesi si andarono normalizzando, nel senso che il conflitto armato cessò e anche la inimicizia formale fu in qualche modo superata. La pace tra Corleone e Catania aveva come presupposto che nella struttura mafiosa di comando non venissero infiltrati estranei alla famiglia di sangue Santapaola-Ercolano. Sul resto dell’Isola naturalmente rimanevano in piedi due diversi orientamenti dentro Cosa nostra: quello degli amici di Totò Riina e Bagarella, che andava per le spicce e si rispecchiava nell’azione di attacco allo Stato che aveva portato alle stragi; e quello di Nitto, di Bernardo Provenzano e di Piddu Madonia, che voleva mantenere il potere tenendo sotto scopa le Istituzioni con alleanze, strategie e ricatti: prima tra tutte la strategia della trattativa tra Stato e mafia.
Nuovo Millennio
E fin qui è tutto nel canone della vecchia storia di una mafia divisa in due: siciliani di occidente, orgogliosi e violenti, e i “catanisi”, strategici e astuti. Accadde però in modo del tutto inaspettato che proprio in quei primi anni Duemila ai Corleonesi si avvicinassero alcuni importanti esponenti della famiglia di sangue Santapaola e cioè due dei germani di Nitto, Antonino e Salvatore. Quest’ultimo, fratello maggiore del boss, era conosciuto anche con lo pseudonimo di ’u zu’ Turi da “Capricciosa”, perché aveva gestito un forno per pizza che portava questo nome nella famosa piazza San Cristoforo.
Si trattava di un ritrovo che, negli anni Settanta, era frequentato dagli abitanti del quartiere, dove andavano al fuoco della legna le squisite pizze siciliane; ma ogni tanto, giusto per regolare i conti, andava a fuoco anche qualche cliente che rimaneva inchiodato alla sedia con i colpi della calibro 38. I fratelli di Nitto Santapaola, usciti entrambi dal carcere, pensarono bene di rendersi autonomi dagli altri leader della famiglia di sangue e cioè dai figli di Nitto, Vincenzo e Francesco, e da Giuseppe e Aldo Ercolano, marito e figlio della sorella Grazia Santapaola. Essi stabilirono un solido patto con il boss Turi La Rocca, capo della famiglia di Caltagirone, che era stato alleato dei corleonesi anche durante la brutta stagione della guerra intestina. Tutti insieme si avvicinarono alle famiglie “occidentali” guidate dal latitante Messina Denaro, erede di Riina e Bagarella, con il proposito di gestire in proprio buona parte degli affari della famiglia catanese.
Per fare ciò utilizzarono gli uomini di Alfio Mirabile, un uomo d’onore con il quale avevano anche un rapporto di affinità parentale. Questa spaccatura rappresentava una novità senza precedenti in Cosa nostra catanese, perché stavolta a fronteggiarsi erano due fazioni composte da uomini dello stesso sangue: da un lato i “filo-occidentali” fratelli di Nitto, alleati degli irriducibili corleonesi; dall’altro la fazione “lealista” formata dai figli del boss e dai nipoti Ercolano che si mantenevano coerenti con la linea più moderna e flessibile dello storico capomafia catanese. I Santapaola, fino a quel momento, con la loro dinastia di nipoti e cugini, erano sempre stati un’armata enorme e compatta di discendenti maschi che avevano agito come un sol uomo.
Durante il governo di Nitto avevano gestito soldati, decine e capi decina, distinguendosi per la propria ferocia e fedeltà agli ordini dello storico e carismatico boss. Ma la crisi di Cosa nostra, iniziata dopo la reazione dello Stato nel 1993, aveva iniziato a farsi pesante: la mancanza del capo e la difficoltà di gestire il poco denaro degli affari della famiglia aveva dato la stura ai primi dissapori. Come spesso accade il conflitto partì da un caso concreto: il denaro pervenuto dell’estorsione perpetrata dal clan ai danni di una società che per anni aveva versato il pizzo a Cosa nostra: la Ferrara-Accardi Srl. Aldo Ercolano dal carcere lamentava che la tangente sarebbe stata indebitamente trattenuta dalla fazione riconducibile ai propri zii Santapaola, Salvatore e Antonino, e che lo “stipendio” mensile che spettava alla sua famiglia mentre si trovava detenuto, non gli era stato corrisposto. Ma ben presto le ragioni del contendere si spostarono anche su altri affari e la distanza tra le fazioni si allargò, alimentata da quell’anomala alleanza di una parte della famiglia con uomini e padrini che appartenevano all’obbedienza corleonese.
La reggenza di Antonino nella libertà iniziò a ottobre 1999 e si concluse a novembre del 2000, quando lo stesso venne raggiunto da diverse ordinanze cautelari, tra cui quelle denominate “Orione” e “Cassiopea”. Frattanto Salvatore Santapaola venne dapprima scarcerato e ammesso agli arresti domiciliari per motivi di salute; e poi il 4 gennaio del 2003 morì nella propria abitazione, ove si trovava. Era stato infatti dichiarato “incapace di intendere e volere” dopo l’espletamento di una perizia medica disposta dalla seconda Corte d’Assise d’appello di Catania, che aveva portato alla sospensione del processo per associazione mafiosa che si stava celebrando a suo carico.
Per lui, così come anche per il fratello Nino, diverse sezioni di organi collegiali avevano dichiarato l’incapacità d’intendere e di volere. Entrambi avevano gestito Cosa nostra catanese ai più alti livelli a cavallo degli anni Duemila, ma le perizie disposte dai tribunali – con argomenti di natura psico-diagnostica – li ritenevano non sani di mente. La situazione rimase perciò sempre più sotto il controllo di Alfio Mirabile – uomo molto fedele ai due mentori dell’inedita ala stragista catanese – che, con l’appoggio del vecchio boss Francesco La Rocca, divenne ben presto ufficialmente il responsabile operativo della famiglia per Catania. Tanto che all’atto dell’arresto di Antonino Giuffrè, avvenuto nel 2002, nelle mani del boss di Caccamo fu rinvenuto un pizzino che indicava il Mirabile come riferimento catanese dell’organizzazione.
Ma il carattere piuttosto scorbutico e poco incline alle mediazioni del Mirabile portò ben presto a un acuirsi del conflitto con la fazione “lealista” facente capo al resto della famiglia Ercolano-Santapaola. Agli inizi del 2003 infatti tutti gli affari estorsivi più importanti, e il conseguente controllo delle attività imprenditoriali a Catania, erano passati nelle mani del Mirabile. L’altra fazione voleva dunque recuperare il terreno perduto in vista della imminente scarcerazione dell’anziano leader Giuseppe Ercolano, papà di Aldo. I rapporti andarono perciò lentamente degenerando e agli appuntamenti per discutere della suddivisione dei proventi illeciti andavano oramai tutti reciprocamente armati.
Tra Mirabile e La Rocca da un lato e Ercolano Mario, fratello di Aldo, dall’altro si trovò faticosamente un’intesa che consentì ai primi di mantenere gli affari che già conducevano e di suddividere quelli sopravvenuti. Sta di fatto che mentre si manteneva un equilibrio vantaggioso per l’ala filo-corleonese, all’orizzonte si profilava l’inizio di altri “grossi lavori” che stavano per iniziare e tra questi quello che riguardava l’ampliamento del porto di Catania.
La stagione dei “supermercati”
Ben presto poi un ulteriore pomo della discordia venne a turbare l’equilibrio precario di quel lodo. Erano i soldi provenienti da due grossi imprenditori del movimento terra legati a Cosa nostra, Vincenzo Basilotta e Pietro Orlando: affari collegati alla ricca stagione della costruzione dei “supermercati”. E come spesso accade, tra dissapori trascorsi e prospettive future, nascono le guerre. Così il 24 aprile 2004 Alfio Mirabile fu affrontato dai killer davanti all’uscio di casa; le pallottole sparate lo attinsero al bacino e alle gambe ledendo i suoi centri vitali e costringendolo su di una sedia a rotelle, tanto da metterlo fuori gioco.
Divenuto oramai disabile, il boss sarebbe deceduto anni dopo, mentre era ricoverato in una clinica riabilitativa, incapace di attendere alle più elementari esigenze della vita. Pochi giorni dopo l’agguato al Mirabile, arrivò la risposta dei suoi sodali per aprire una guerra che non si sarebbe fermata lì. Il 29 aprile i killer colpirono per vendetta Salvatore Di Pasquale. Gli Ercolano risposero a loro volta il 3 maggio, alla zona industriale di Catania, con l’omicidio di Michele Costanzo, una delle persone più vicine al Mirabile, provocando anche il ferimento di Antonino Sangiorgi, titolare della Mediterranea Distribuzione Logistica. Il vento che soffia da Palermo aveva portato ancora guerra di mafia a Catania, dividendo tra loro fratelli e nipoti con lo stesso cognome, cosa che non era mai accaduta dalle parti dell’Etna.
Ma ancora una volta l’ala più fedele al suo storico leader avrebbe represso nel sangue questo tentativo di modificare il DNA di Cosa nostra catanese, accelerando l’ascesa al comando di Vincenzo, primogenito di Nitto Santapaola. Con le buone o con le cattive, la legge di Nitto ancora una volta avrebbe prevalso.
Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita
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