- La chiamano droga del combattente. Sono pillole bianche, impasto chimico di anfetamina e altri eccitanti che elimina stanchezza, dolori, rimorsi. Nel mercato mondiale degli stupefacenti è conosciuta con il nome di Captagon.
- Documenti esclusivi ottenuti da Domani in collaborazione con la testata francese Mediapart rivelano come si muovono gli uomini coinvolti in uno dei più grandi sequestri di Captagon mai avvenuti nel mondo.
- Al centro dello schema c’è un imprenditore italo-svizzero legato anche alle cosche e un misterioso commerciante siriano amico della famiglia del dittatore Bashar Al Assad. A fare da sfondo le relazioni intrattenute da alcuni broker coinvolti nel traffico con libici residenti a Roma, ritenute in passato prestanome della famiglia Gheddafi.
Codici che valgono miliardi: GETU5908581, HMSU4509298, HMSU4509507 e GETU5917053. Quattro sigle che corrispondono ad altrettanti container in sosta su una nave cargo nel porto di Salerno. Estate 2020, la prima nel clou della pandemia. Nello scalo salernitano ne avevano viste di cose strane negli anni, dopotutto è sempre stato un hub centrale nel traffico di droga del mediterraneo. Eppure ha prevalso lo stupore quando la guardia di finanza ha estratto dai container 14 tonnellate di piccole pillole bianche. Tanta roba in una volta neanche i veterani dei sequestri di droga la ricordavano in quel porto. In realtà da nessuna parte, per questo la notizia impiegò poco a fare il giro del mondo: «Sequestrate 84 milioni di pillole di Captagon». Una storia, questa del traffico di Captagon, che inizia a molti chilometri di distanza da noi e finisce al di là del mediterraneo: dalla Siria alla Libia passando dall’Italia. Un traffico internazionale che coinvolge apparati e governi, uomini d’affari e broker, che prestano i propri servizi logistici a più organizzazioni criminali per il trasporto di qualunque tipo di merce illegale.
Documenti esclusivi ottenuti da Domani in collaborazione con la testata francese Mediapart rivelano come si muovono gli uomini coinvolti in uno dei più grandi sequestri di Captagon mai avvenuti nel mondo. Al centro dello schema c’è un imprenditore italo-svizzero legato anche alle cosche e un misterioso commerciante siriano amico della famiglia del dittatore Bashar Al Assad. A fare da sfondo le relazioni intrattenute da alcuni broker coinvolti nel traffico con libici residenti a Roma, ritenute in passato prestanome della famiglia Gheddafi.
Che cos’è il Captagon
La chiamano droga del combattente. Sono pillole bianche, impasto chimico di anfetamina e altri eccitanti che elimina stanchezza, dolori, rimorsi. Nel mercato mondiale degli stupefacenti è conosciuta con il nome di Captagon. Diventata celebre perché usata dagli spietati miliziani dell’Isis in Siria, Iraq e Libia. Ma ne fanno uso abitualmente i giovani dei paesi del Golfo ed è ormai diffusa nei rave party anche in Europa. Il Captagon era stato creato inizialmente per migliorare i deficit di attenzione e combattere la narcolessia. Si tratta di un’anfetamina sintetizzata in laboratori clandestini in Medio Oriente, destinata principalmente al mercato delle monarchie del Golfo, come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar. Per il regime siriano serve a consolidare il proprio potere: con la produzione e lo smercio riappacifica diverse fazioni, oltre a riempire le casse dello Stato. Nonostante le sanzioni, gli uomini di Assad si muovono impuniti.
Finché in Italia non è accaduto qualcosa di imprevedibile. Nell’estate del 2020, gli uomini del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli, sequestrano nel porto di Salerno 84 milioni di pillole per un totale di 14 tonnellate. Il carico di Captagon, partito dal Porto siriano di Latakia, era nascosto in cilindri di carta per uso industriale e macchinari costruiti in maniera tale da impedire agli scanner di individuare il contenuto. Quasi 100 milioni di pasticche, per un valore di mercato di oltre 1 miliardo. «Si tratta del sequestro di anfetamine più importante operato dalle forze di polizia a livello mondiale», aveva affermato il colonnello Domenico Napolitano.
All’epoca, l'incidente aveva attirato l'attenzione dei media internazionali. Si trattava di uno dei più grandi carichi mai intercettati nella storia, che le autorità erroneamente attribuivano allo Stato Islamico, sostenendo che lo stesso utilizzasse la droga per "finanziare la jihad".
Tuttavia, le indagini italiane prendono una piega completamente diversa. Nei documenti esclusivi ottenuti da Domani si delinea un quadro completo delle reti dietro questo traffico. Un business dal valore di 30 miliardi di dollari, che rappresenterebbe per la Siria di Assad una fonte di introiti quarantaquattro volte superiore alle esportazioni legali del Paese.
Il piano
Alberto Eros Amato ha 47 anni, siciliano di Catania, ma residente a Lugano. In Svizzera è titolare di una società di servizi di trasporto merci: Gps spa Global Aviaton Supplier. Fu a lui, o meglio alla sua azienda, che furono inviati i container partiti dal porto di Latakia, nell'estremo ovest della Siria. Da qui è salpato il Cargo Vento di Tramontana, sul quale hanno viaggiato nascosti nei quattro container 84 milioni di pillole Captagon.
Dopo un'indagine durata quasi due anni gli investigatori italiani e la procura di Salerno guidata da Giuseppe Borelli hanno chiuso in tempi record una prima tranche processuale: l‘8 febbraio 2022 Amato è stato condannato in primo grado a 10 anni di carcere. L’avvocato di Amato ha annunciato che farà appello contro la sentenza del tribunale. Di certo però Amato ha ammesso durante uno dei suoi interrogatori di conoscere un personaggio siriano che interessa molto agli investigatori, che stanno proseguendo la loro inchiesta e puntano all’origine del traffico: la Siria. Il sospetto, ormai sempre più certezza, è che la regia sia in quello stato e sia gestito ad altissimi livelli.
La nave cargo che ha trasportato i container carichi di Captagon gestiti dalla società svizzera di Amato era partita da Latakia, il porto principale della Siria, è noto per essere una delle roccaforti del regime di Assad. È da qui che parte un terzo del Captagon sequestrato dalle polizie europee, nel solo 2020 hanno recuperato merce per 3,4 miliardi di dollari.
I lealisti del regime di Assad tengono le banchine di questa distesa di 150 ettari, nel cuore della quarta città del Paese. «Il porto è controllato da uomini vicini ad Assad in particolare la Quarta Divisione dell'Esercito, un'unità speciale guidata da Maher Al-Assad, fratello del presidente Bashar Al-Assad», assicurano gli autori di un rapporto del New lines institute. Il captagon è «essenzialmente importante per il regime, perché tiene insieme una sorta di rete mafiosa di élite amichevoli. Hanno interesse che il regime siriano rimanga al suo posto e rimanga unito in questa rete criminale», assicurano gli esperti del New lines institute. Inoltre, secondo un'indagine delle forze dell'ordine tedesche, riportata dalla rivista Der Spiegel, l'unità di Maher viene pagata 300 mila dollari per ogni container di captagon spedito dal porto di Latakia. Un certo numero di uomini d'affari di alto livello e parenti di Assad sono stati legati al commercio, così come il gruppo militante Hezbollah, che è alleato del regime di Assad e ha facilitato il traffico nelle aree che controlla, in particolare la valle della Bekaa in Libano.
Le indagini
«Le indagini hanno permesso di individuare alcune figure in Siria al centro di tutto e su queste ci stiamo concentrando», dice una qualificata fonte investigativa che segue da vicino il caso in mano alla procura di Salerno. Di certo i protagonisti intercettati dai magistrati italiani interessano molto l’intelligence occidentale e altre autorità europee. Da quanto risulta a Domani, infatti, la procura di Salerno è stata contattata per condividere gli elementi raccolti finora utili anche all’estero così da ricostruire un quadro complessivo e definitivo del traffico siriano. L’indagine, dunque, potrebbe allargarsi a macchia d’olio.
Intanto le intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre a mirati accertamenti bancari, hanno permesso di ricostruire in maniera dettagliata il metodo usato dal gruppo sotto inchiesta. I pagamenti transitavano tra la società di trasporto di Amato a quella di un altro agente doganale salernitano. Su Amato gli investigatori sottolineano più volte nelle informative le sue relazioni con ambienti criminali e mafiosi italiani: «Si tratta di un soggetto caratterizzato da significativi precedenti di polizia, avente importanti relazioni nel mondo della criminalità organizzata e del traffico internazionale di sostanze stupefacenti». I detective riportano un lungo elenco di contatti. Tra questi spiccano quelli con potenti uomini della ‘ndrangheta in Lombardia, la più ricca e pericolosa organizzazione mafiosa dei nostri tempi.
Ma torniamo agli affari di famiglia e alla rete personale del regime siriano sul controllo sul traffico di Captagon. Nei documenti italiani compare anche un altro signore, già conosciuto agli inquirenti per il caso della nave Noka, bloccata dalle autorità greche con un grosso carico di Captagon partito anch’esso da Lattakia.
Taher Al-Kayali, detto "Abukarim", 62 anni, capelli neri e piccoli baffi. Prima del sequestro di Salerno, l'uomo, ora in pianta stabile a Latakia, era già stato perseguito dalla giustizia italiana per traffico internazionale di autovetture di lusso. Inoltre, almeno altri due sequestri di captagon, in Grecia e Arabia Saudita, portano le sue tracce. Taher, è secondo gli inquirenti, il vero fulcro in questo caso. Già affiliato agli uomini d'affari protetti del regime siriano è a capo della società Neptune Overseas Limited.
«Buongiorno Boss! Sono al porto ad aspettare i tuoi containers»; è il messaggio scritto da Amato il 17 agosto 2018. I due, già in rapporti nel 2018, continuano ad organizzare trasporti tra il porto di Salerno e quello di Latakia. Non solo captagon, ma parlano anche di altre sostanze, dal tramadol alla marijuana all’ecstasy.
Davanti agli inquirenti, Amato conferma che proprio Taher Al Kayali era il mittente dei container. Smentisce di essere a conoscenza del loro reale contenuto: «Gli ho chiesto che tipo di merce avesse a che fare e mi ha detto che l'avrei trovata nelle liste di imballaggio». Amato inoltre ripercorre la loro prima collaborazione nell'ottobre 2019: «Mi ha inviato quattro spedizioni da Latakia di vari materiali, tra cui cinque rimorchi per camion, un camion pianale e semi di cotone, quest'ultimo alloggiato in container. Mi ha detto che aveva spedizioni che avrebbero dovuto andare dalla Siria ad altri paesi arabi; solo l'ultimo carico, mi disse, era destinato alla Libia».
Al Kayali conferma di conoscere bene la famiglia Assad. Lo dice in un’intervista rilasciata a Irpi Media e Occrp. In particolare è amico, «ha l’onore di esserlo», del cugino del presidente, Mudar Al-Assad, che detiene, come scoperto dalle due testate giornalistiche, la metà delle azioni del porto turistico di Latakia, dove Al Kayali ha un suo locale e fa affari.
In un messaggio al Domani però ribadisce: «Né io né la mia azienda abbiamo nulla a che fare con il traffico di droga. Sfido chiunque a dimostrare il contrario». E continua: «Seguirò i suggerimenti del mio avvocato e sono pronto a intentare una causa per diffamazione».
Ascoltando le conversazioni tra Amato e il siriano la guardia di finanza raccoglie nuovi spunti investigativi, difficili però da esplorare fino in fondo. Soprattutto perché si parla di Siria e di Libia. E dall’Italia è difficile condurre indagini in quei paesi poco collaborativi.
Una serie di messaggi intercettati dalla guardia di finanza il 5 gennaio 2019 aiutano a capire il sistema di cui Al Kayali e Amato sono validi ingranaggi. Al Kayali e Amato discutono della possibilità di trasportare il tramadol, un oppioide sintetico, in Libia perché richiesta direttamente da pezzi grossi del governo del generale Haftar. «Di solito faccio passare l’erba e l’ecstasy», dice il siriano ad Amato, e aggiunge: «Tramadol so che c’è, so quanto costa, ma non ho mai chiesto per inviare». Poi il siriano spiega come funziona il meccanismo: «Come sai qui ho il permesso di portare la merce dai libanesi e farla uscire e poi trasportarla in Libia…Però in Libia ci sono dei commercianti che fanno pagare pure per fare entrare e poi passare per l’Egitto…se Haftar vuole aumentare l’entrata di soldi si può usare il suo permesso e si lavora meglio…Tanto niente entra nel mercato né siriano né libico…e poi devi capire che haftar comanda est Libia e politicamente dalla nostra parte (il nostro governo)...Invece Tripoli e il nemico numero 1 della Siria ed erano loro a mandare isis nel nostro paese». Al Kayali, il socio d’affari siriano di Amato, sembra conoscere molto bene i meandri inaccessibili del traffico di droga.
Un passaggio dell’intercettazione:
Amato: “Tramadolo... che mi dici a riguardo?”; “E farlo arrivare in Libia ci riusciamo?”;
Tajer: Hehehehehe ma chi ti chiede ???;
Amato: “Haftar”.
La connessione libica
Nell’inchiesta della procura di Salerno il ruolo dei libici emerge più volte e in tempi diversi nelle carte relative alla triangolazione Siria-Italia-Libia, seppure finora i pm non abbiano trovato prove di un loro diretto coinvolgimento. . Due cose sono certe: da Salerno la droga avrebbe dovuto raggiungere Bengasi; i compratori sono libici, ma non quelli intercettati con Amato il broker italo-svizzero. Amato, infatti, a Roma ha un amico libico vicino al regime di Gheddafi. Non uno qualunque: «Faceva parte dei suoi uomini della sicurezza», assicura una fonte all’ambasciata libica a Roma. Si chiama Ali Ahmed Beinein e nel 2017 aveva subito un sequestro di beni perché sospettato di essere un prestanome di Muatassim Gheddafi, quintogenito del dittatore. Beinein aveva ricorso in Cassazione, senza successo.
Il nome di Beinein appare anche in un rapporto del panel di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia pubblicato nel 2017. Gli esperti sono categorici: Ali Ahmed B. «È sospettato di essere stato uno stretto collaboratore di Gheddafi». Interessante quindi vedere che l'uomo, ancora domiciliato a Roma, si ritrova nell'immediato entourage di Amato, sottolineano gli investigatori nei loro rapporti.
Ali Ahmed si trova anche al centro di una cinquantina di flussi finanziari inviati dall'Italia a diversi conti in Gran Bretagna, Libia e persino a Malta o in Russia. Il denaro si sposta da un conto all'altro e l’antiriciclaggio italiano lancia degli alert all’autorità giudiziaria.
Questi elementi e la conoscenza tra Beinein e Amato non è sufficiente però a dimostrare il coinvolgimento del primo nei traffici del secondo. Così gli inquirenti preferiscono setacciare ancora la pista più calda, che da Amato, uomo dai mille contatti anche con i clan di mafia, conduce all’amico della famiglia del dittatore siriano Assad.
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