Il femminicidio di Cecchettin ci ha mostrato in modo inequivocabile la trasversalità della volontà di potere e controllo che gli uomini agiscono o desiderano agire sulle donne. Ora bisogna trasformare il nostro lutto collettivo in un’azione trasversale a lungo termine, per cambiare la società
Giulia Cecchettin è morta a 22 anni a seguito di settantacinque coltellate inferte dall’ex compagno, Filippo Turetta. Dall’11 novembre 2023 è passato poco più di un anno e, adesso, con la condanna in primo grado all’ergastolo di Turetta, siamo giunti alla conclusione di una vicenda destinata a essere ricordata come il caso di femminicidio che ha spezzato la corda di un sistema sociale, politico e culturale cieco, irresponsabile, omertoso.
Il nome di un crimine
Guardiamoci bene dal pensare che questo abbia segnato una svolta radicale. Come già scritto su queste pagine, il 2024 è stato un anno come un altro in cui le donne hanno continuato a essere ammazzate dagli uomini. Questa è un’evidenza suffragata dai dati e tuttavia è anche una considerazione incompleta.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha alzato il livello di guardia e tutela – individuale e reciproca – di donne di ogni età. La temperatura del dibattito non si è mai veramente abbassata, le rivendicazioni continuano a essere espresse ad alta voce in una dimensione spesso collettiva.
Nell’ultimo anno abbiamo compreso che Giulia Cecchettin, la sua vita e la sua morte, si sono fatte simbolo di un vasto sistema di oppressione di genere sia per l’efferatezza del caso che per un principio di riconoscibilità. Tra le molte cose dette ad alta voce, la bolla di chi fa il dibattito pubblico ha stentato a verbalizzare lo choc sperimentato nel vedere quel tipo di crimine violento consumarsi così vicino ai confini della propria vita.
Nessuno ha potuto ignorare la morte di Giulia Cecchettin e nessuno ha potuto non chiamare quel crimine con il suo nome: femminicidio. Per anni abbiamo letto e ascoltato professionisti e opinionisti di ogni risma rifiutarsi di riconoscere il senso e la validità di questa parola. Ma nessuno ha più osato pronunciare la frase “il femminicidio non esiste” dopo la morte di Giulia Cecchettin. Come ogni donna, meritava di meglio che porre fine a una battaglia lessicale a prezzo della sua stessa vita.
Trasformare il lutto in azione
Ora è tempo di elaborare il lutto collettivo ovvero di farne qualcosa. La morte di Cecchettin ci ha mostrato in modo inequivocabile la trasversalità della volontà di potere e controllo che gli uomini agiscono o desiderano agire sulle donne. È dunque altrettanto inequivocabile che abbiamo bisogno di pianificare mutamenti sociali a lungo termine, così come di arginare abusi e violenze nell’immediato.
Non abbiamo bisogno di ulteriori ostracismi alla libertà di autodeterminazione, abbiamo urgenza di finanziamenti e supporto massiccio ai centri antiviolenza. Abbiamo bisogno di
strumenti di denuncia e di strategie sicure di allontanamento da contesti e situazioni a rischio. Abbiamo bisogno di contributi economici che garantiscano l’autonomia delle molte donne che vivono sia l’abuso che la povertà. Abbiamo bisogno di educazione all’affettività, alla sessualità, alla parità di genere, alla morte e alla mortalità fin dall’infanzia.
Rendere organico all’intero percorso di crescita questo complesso di conoscenze sull’essere significa immaginarci come società che agisce a monte. Il contrario dell’immaginazione è la realtà di oggi, dell’ultimo anno, di sempre. Quella in cui lasciare che le donne muoiano e risolvere una disfunzione di sistema destinata a ripetersi con il carcere a vita.
È quantomai avvilente pensare di appartenere a una specie che non può concepire la possibilità di crescere e progredire se non quando viene messa di fronte al trauma dell’irreversibilità, se non attraverso la tragedia. Proviamo allora a immaginare il mondo che ancora non abbiamo.
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