L’allenatore morto per un cancro al pancreas a 76 anni aveva l’eleganza di un direttore d’orchestra. Un pendolo tra innovazione e rigidità che sul campo ha fatto cose che l’Italia non aveva mai visto
Aveva l’eleganza e il distacco dei direttori d’orchestra, Sven-Göran Eriksson e così, come aveva annunciato, è andato incontro alla durezza della morte per un cancro al pancreas, che alla fine l’ha tirato via dalla vita a 76 anni.
Arrivò in Italia come il Nils Liedholm giovane, l’eretico anche più del barone che già di suo appariva una sorta di Joe Strummer che suonava l’organo in chiesa. Erano gli anni Ottanta. E per un ventennio l’Italia del cinema – da Fellini a Sordi – aveva molto insistito sulla Svezia come terra di trasgressione, il pensiero era: Se sono così liberi nella camera da letto, figuriamoci in campo, e vediamo che succede.
Successe che il vecchio e il giovane, diventarono protagonisti del calcio italiano. Il vecchio – Nils – vinse lo scudetto con la Roma (1982-83) e perse la Coppa Campioni (1983-84) prima di cederla al giovane – Sven – che poi vinse lo scudetto con la Lazio qualche anno dopo (1999-2000). Eriksson fu la trasgressione che in tanti cercarono, prima di farsela in casa con Sacchi e Zeman.
I primi anni
Come il boemo, Sven, era passato per l’hockey sul ghiaccio e si porterà in testa da allenatore le verticalizzazioni, arrivando solo dopo ai campi di calcio. Era stato sciatore, come quasi tutti gli svedesi, poi vennero i mondiali in casa del 1958 – che giocò da protagonista anche il vecchio Nils – e da quel momento la gioventù svedese prese ad amare Kurt Hamrin anche se voleva avere la pelle nera di Pelé.
Sven che per la mamma prima della semplificazione del mondo del calcio era Svennis: figlio di un autista d’autobus, Sven, e di una casalinga, Ulla, più grande di lui di tre anni e anche in Svezia come in Italia in quegli anni – i Quaranta del Novecento – era un fatto di cui vergognarsi, costringendoli a vivere la gravidanza in clandestinità senza dirlo alle famiglie e abitando in un appartamento senza acqua corrente né elettricità.
«Mia madre ha fatto qualsiasi cosa per me. Io dovevo essere la sua rivincita per questa vita». Svennis tra l’hockey e il calcio sceglierà quest’ultimo anche se l’allenatore era lo stesso: il signor Olsson che lo faceva anche lavorare nel suo forno a Torsby: farina, pane e schemi che svanivano sotto le dita.
Il campo è la vita
Eriksson era un terzino veloce con intelligenza e tenacia, in quarta divisione, poi in terza all’SK Sifhälla mentre studia economia, lasciata per l’educazione fisica che lo porta alla svolta: seconda serie al KB Karlskoga allenato da Tord Grip. È lui che gli dice di smettere a 27 anni, c’era anche stato un infortunio pesante alla caviglia e se lo porta in panchina al Degerfors come vice. Grip aveva notato che Svennis in campo capiva i raddoppi e i movimenti da modificare dei compagni prima dell’allenatore l’ungherese Moré.
Tanti parlano in campo, ma Svennis diceva e Grip seppe ascoltare. Insieme provarono – in una serie inferiore – il 4-4-2 col quale giocava il Malmö di Bob Houghton nel 1974. Il resto è stata una vita da direttore d’orchestra. Grip chiamato in nazionale gli lascia il posto da titolare, e Svennis diventa allenatore con una tesi sull’importanza del pressing alto e dell’aiuto tra compagni, l’importanza di conservare l’assetto tattico in qualunque situazione, è quello che farà fino alla fine: chiedendo di allenare il Liverpool come ultimo desiderio. Il gioco e l’integrità tattica come conduzione di vita.
Perché quelli come Eriksson sono gli uomini che prima di tutto sposano una idea di stare in campo che diventa quella dello stare al mondo. Il passo e l’assetto, la scelta e il linguaggio, questo era Svennis e con questa idea vincerà moltissimo, prima in Svezia – dove introdurrà la psicologia negli spogliatoi con Willi Railo e gli stage all’estero girando per squadre della Premier League come Kerouac per le strade americane, trovando in Bobby Robson un maestro – e dove sarà il primo a guidare una squadra svedese a un titolo europeo: vince la Coppa Uefa con l’IFK Göteborg (1981-1982) battendo Ernst Happel e il suo Amburgo.
Gli anni laboratorio
Quell’anno vinse anche il campionato e la coppa di Svezia, senza il rumore d’un Mourinho. Era un pendolo tra innovazione e rigidità calcistica con la fortuna di avere un campionato – quello svedese – flessibile, in un paese che aveva una naturale propensione al cambiamento. Questi sono gli anni laboratorio dove fa esperimenti ed errori, che poi diventeranno un metodo da esportare. E poi c’è la classe e il distacco, è pur sempre un direttore d’orchestra, i suoi mantra negli anni saranno due, per i dirigenti: «Se volete esonerarmi, vi capisco», e per i calciatori: «Se volete le mie dimissioni, eccole».
È un uomo risolto, sempre proiettato altrove che sa gestire i campioni – non a caso molti dei suoi calciatori oggi sono allenatori centrali nel calcio europeo: da Diego Simeone a Simone Inzaghi senza dimenticare Sinisa Mihajlović o Matías Almeyda – e coinvolgere le glorie come quando appena arrivato sulla panchina del Benfica si tirò dietro Eusebio, che allenava i portieri con i suoi tiri, citofonare Bento per scoprire che la gloria continuava a tirare angolato e forte anche quando si era messa a sedere in tribuna. E col Benfica affronta ed elimina in Coppa Uefa la Roma di Liedholm superando la linea d’ombra e conquistando Dino Viola che lo chiamerà ad allenare nonostante poi quell’anno perderà la finale contro l’Anderlecht (1982-83).
Il ritorno in Italia
Svennis poteva scegliere tra Barcellona e Roma, scelse la seconda cambiando la sua vita e anche il calcio italiano. Solo lui poteva perdere uno scudetto contro il Lecce e restare in piedi, come poi accadrà a Carlo Ancelotti – suo capitano alla Roma – che perderà lo scudetto da allenatore della Juventus a Perugia, quasi un risarcimento che diede lo scudetto alla sua Lazio. Ma durante Roma-Lecce 2-3 non pioveva e non ci furono interruzioni, solo fantasmi, gli stessi della Coppa Campioni.
In questo intervallo che va dallo scudetto perso con la Roma allo scudetto vinto con la Lazio c’è la Fiorentina (Carlos Dunga e la coppia Borgonovo-Baggio anche se poi andrà in Coppa Uefa con un gol di Pruzzo contro la sua Roma), il ritorno al Benfica (elimina l’Olympique Marsiglia di Tapie e perde la finale di Coppa Campioni contro il Milan di Sacchi) e la Sampdoria dove incontra Roberto Mancini e crea i presupposti per lo scudetto laziale. È alla Samp che cambia: la sua dimensione calcistico-ideologica diventa più strategica e meno dogmatica. E quando arriva alla Lazio è il tecnico bello da vedere, di grande respiro tattico, letture altissime, intuizioni meravigliose e due Coppe Italia.
Ma la sua Lazio era la squadra che nasceva dall’accumulo delle panchine precedenti, dalle vittorie sfiorate e da una testardaggine che lo portò a dire: «Avevamo vinto. Avevo vinto. Quella sera dissi a Cragnotti che se avesse comprato subito i tre giocatori che gli avevo chiesto, forse avremmo vinto tre campionati invece di uno».
Il suo dogmatico 4-4-2 divenne spesso un più moderato 4-5-1 poi saltò sulla panchina dell’Inghilterra, il paese che gli aveva dato il modulo, ma raccolse poco, anche se regalò un Germania-Inghilterra 1-5, due quarti di finale agli Europei e l’innesto di Wayne Rooney. Ha chiuso allenando le Filippine passando dalla Cina.
È stato un cittadino elegante del mondo del calcio, al massimo diceva «porca miseria» e la sua parola preferita in italiano era «rompipalle», lingua e carattere nascondevano una grande smania di vivere come raccontano i suoi tanti amori da rockstar. Sven-Göran Eriksson ha diretto squadre come orchestre e ha suonato la musica che gli piaceva, senza mai consegnarsi al rumore.
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