È scaduta ormai da un anno, agosto 2023, l’autorizzazione integrale ambientale (Aia) concessa per l’ex Ilva di Taranto. E al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, è la voce che filtra dall’interno degli uffici di via Cristoforo Colombo, in vista del rinnovo che dovrebbe avvenire tra qualche settimana, c’è molta preoccupazione.

Il motivo è presto detto: l’esistenza di un documento di un centinaio di pagine che porta la firma dell’Arpa Puglia, dell’Agenzia regionale per la salute (Arees) e della Asl di Taranto, e che è arrivato qualche giorno fa sulla scrivania del ministro Gilberto Pichetto Fratin, che rischia di far saltare il banco nei rapporti tra i sindacati, il governo Meloni e la nuova governance di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria.

Tutto per un acronimo, Vds, cioè la valutazione del danno sanitario, la quale costituisce un elemento essenziale per la formulazione dei pareri di competenza regionale nell’ambito delle procedure (Via ed Aia) di competenza statale, come stabilisce una legge del 2012.

Nel rapporto Vds di quest’anno si considera lo scenario con un quadro emissivo correlato ad una produzione futura di 8 milioni di tonnellate d’acciaio, come richiesto di poter produrre in futuro dal gestore Acciaierie d’Italia, ma anche lo scenario emissivo così detto “ante-operam” correlato ad una produzione di acciaio di 6 milioni di tonnellate all’anno d’acciaio, come era previsto dall’Aia attualmente scaduta.

Quartiere contaminato

«I risultati sono valutati complessivamente poco significativi, in termini di riduzione delle emissioni rispetto al complesso delle emissioni dell’area a caldo già autorizzate», hanno chiosato le istituzioni ambientali e sanitarie regionali, riferendosi alla passata gestione di Lucia Morselli, manager ora sotto indagine perché accusata dalla procura di Taranto di aver «con artifizi e raggiri, falsamente attestato nel bilancio di esercizio di Acciaierie, falsi quantitativi di consumi e giacenze di materie prime, fossili, gas, di prodotti finiti e semilavorati, così alterando i parametri livelli di emissione e livelli di attività».

E per i prossimi anni Arpa e Asl raccomandano al ministero dell’Ambiente «l’adozione di ulteriori misure finalizzate al contenimento dell’esposizione agli inquinanti considerati». E per il quartiere Tamburi in particolare, considerati i tassi di mortalità e i risultati della valutazione sanitaria circa l’esposizione della popolazione all’area industriale, i tecnici regionali indicano che «è indispensabile procedere ad una riduzione dell’esposizione associata allo scenario post-operam, per ricondurre il rischio della popolazione residente all’interno di una soglia accettabile».

Dati sanitari 

A sostegno di questa tesi, nel documento di “valutazione del danno sanitario” vengono messi in fila tutta una serie di dati provenienti da due approcci diversi, tossicologico ed epidemiologico, che contribuiscono entrambi, insieme, a delineare la cartografia un disastro.

Si scopre così che nel sito di interesse nazionale, Sin, di Taranto, nel confronto con la popolazione regionale, «si notano eccessi statisticamente significativi di ospedalizzazione in entrambi i sessi per tutte le cause naturali, tumore maligno della trachea, dei bronchi e del polmone, tumore maligno della pleura, malattie del sistema circolatorio, malattie cardiache, malattie ischemiche del cuore», si legge nel rapporto: «inoltre eccessi di ospedalizzazione nei maschi per tumori maligni dell’esofago, tumori maligni del pancreas, tumori maligni della vescica, nelle femmine per tumori maligni del connettivo e di altri tessuti molli, tumori maligni dell'encefalo e di altre non specificate parti del sistema nervoso».

E ancora, nei bambini da 0 a 14 anni l’equipe della Asl di Taranto, anche se nell’instabilità delle stime legate ai bassi numeri considerati, ha rilevato: «per i ricoveri e/o la mortalità, eccessi per i tumori maligni del sistema emolinfopoietico, i linfomi non Hodgkin, le malattie circolatorie, cerebrovascolari, respiratorie e polmonari. E per tutte le cause», aggiungono i medici. Inoltre, il dato delle malformazioni congenite suggerisce alcuni eccessi di rischio rispetto all’atteso, raggiungendo una significatività statistica solo per il totale dei casi osservati», concludono.

Negazionismi

In tutti i casi, questo è un quadro diverso dallo studio presentato in passato al ministero dai commissari straordinari di Acciaierie d’Italia, ed acquisito nell’ambito della stessa procedura di rinnovo dell’Aia.

Uno studio, quello firmato da Alfonso Cristaudo, già professore ordinario di Medicina del Lavoro dell’università di Pisa, e dall’ingegnera Annalisa Romiti, che prendeva anche per buona l’ipotesi che l’alto numero di malattie che colpiscono le persone che abitano nei dintorni dell’area industriale di Taranto, fosse da addebitare alle conseguenze degli stili di vita, all’abuso di sigarette ed alcool. Tant’è.

Nulla di nuovo sotto il cielo rossastro di Taranto - si dirà – neppure sull’atteggiamento negazionista, se non, invece, la conferma di quanto già sostenuto nell’ordinanza di sequestro dell’area a caldo di Ilva del 26 luglio del 2012, cioè che «la fabbrica provocava malattie e morte nei bambini»; un’ipotesi, questa - come si ricorderà - su cui pende tuttora il giudizio di secondo grado nei confronti di decine di persone davanti alla corte d’assise d’appello del tribunale di Taranto, e con la sentenza che dovrebbe arrivare tra qualche mese.

Sul lastrico

E, tuttavia, la faccenda sanitaria non è l’unica grana a cui il governo Meloni dovrà far fronte nelle prossime settimane. C’è la questione delle centinaia di milioni di euro non riscossi dalle aziende dell’indotto e dai fornitori, ed oggetto all’inizio dell’anno da dure proteste, che qualche giorno fa ha trovato un qualche tipo di soluzione per mano di una lettera recapitata alle aziende da Daniele Rossi, direttore acquisti indiretti di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria.

Nella missiva visionata da Domani, si propone di aderire entro il 22 luglio ad un accordo transattivo il quale prevede che il credito vantato possa essere rideterminato nella misura del 70 per cento, «con stralcio del residuo e senza null’altro a pretendere». A fronte di ciò, si legge nella lettera: «Il pagamento del 70 per cento sarà riscadenzato in un arco temporale di 20 mesi con rate mensili di pari importo».

La notizia della proposta di Adi è stata consegnata ai giornali locali dal deputato tarantino di Fratelli d’Italia, Dario Iaia, e salutata come un buon risultato da parte del governo per evitare future tensioni sociali. Non solo. Iaia aveva riferito a mezzo stampa che, grazie alla garanzia di Sace (società di servizi assicurativi di stato) gli imprenditori avrebbero ricevuto i soldi subito, e non a rate.

Uno di loro, però, spiega a Domani come funziona il meccanismo di riscossione del credito: «Nella lettera si dice che occorre firmare una liberatoria per non dover pretendere più il 30 per cento restante. E non è vero quello che sostiene Iaia a proposito degli anticipi delle somme e delle garanzie di Sace. Il pagamento avverrà in 20 rate e, se eventualmente un’azienda ha bisogno di liquidità, potrà ricevere le somme in anticipo, sì, ma dietro il pagamento del costo del denaro, ovviamente, cioè di un interesse che oscilla attorno al 10 per cento. E solo se è bancabile, cioè soltanto se si tratta di una azienda che ha grosse garanzie. Per tutte le altre si intravede il lastrico».

È il punto in cui si trovano oggi migliaia di operai dell’ex Ilva di Taranto, alcuni dei quali in cassa integrazione dal 2018, e mai più rientrati in fabbrica. «Prima di parlare di ammortizzatori sociali vogliamo discutere di un piano industriale credibile, progetti concreti, un cronoprogramma definito sulla decarbonizzazione e del rientro al lavoro di tutti i lavoratori. Per anni abbiamo denunciato, anche in una lettera alla Presidente Meloni oltre un anno fa, la gestione fallimentare e non trasparente del privato che ha portato l’ex Ilva a un passo dalla chiusura. Ma nessuno ci ha mai risposto», dice a Domani il segretario generale dei metalmeccanici della Uil, Rocco Palombella.

Il sindacalista ha passato diversi decenni a lavorare in quella fabbrica di cui conosce ogni bullone e chiosa: «La situazione è drammatica, con gli stabilimenti quasi fermi e migliaia di lavoratori senza certezze. Si parla di un bando di gara che sarà pronto a breve, di cinque aziende che sarebbero interessate ma vogliamo sapere cosa vuole mettere sul mercato il governo. Vogliamo discutere di lavoro e piano industriale, non di cassa integrazione», conclude Palombella.

Già, la cassa integrazione in questa città, che mantiene ancora i tratti dell’economia di tipo fordista, è un indicatore del livello di crisi sociale che l’attraversa. Basti pensare che secondo i dati forniti dalla stessa Uil, nel 2023, la cassa integrazione ordinaria processata a Taranto ha rappresentato il 34 per cento del totale nell’intera Puglia. Cifre spaventose a cui si deve aggiungere il dato della disoccupazione, il 13, 3 per cento, cinque punti in più dell’intera media nazionale, che fanno dell’intera città di Taranto, terza città del meridione isole escluse, un’altra grana da risolvere per il governo Meloni.

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