C’è una struttura verticale in acciaio alta 40 metri con un diametro di un’altra decina, interamente rivestita di materiale refrattario, ha la forma di due coni uniti da una base che costituisce un forno. È all’interno di un insieme di questo tipo che si realizza la fusione del minerale di ferro con il carbon coke e, quindi, la produzione della ghisa destinata poi attraverso un lungo processo di affinamento a diventare acciaio. 

È fatto così l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, dove si produce la ghisa ma anche la loppa, cioè la parte fusa delle scorie del minerale di ferro, a una temperatura di 1.500 gradi, la materia che viene raccolta da una sorta di carri ferroviari denominati carri siluro per poi destinarla al reparto Acciaieria. 

Qui, all’interno del piano colata sono impiegate diverse figure professionali. Alcuni di loro, operai metalmeccanici, sono i deputati a controllare la temperatura della ghisa, prelevare campioni introducendo manualmente la parte terminale di un tubo (asta) di dieci metri nella ghisa; sull’asta è installata una sonda termo-elettrica che manda il segnale alla sala di controllo. 

Morte inevitabile 

Ecco, si deve partire dalla spiegazione minima di questo processo produttivo che avviene all’interno di un altoforno, se si vuole comprendere il contesto in cui è avvenuta la morte di un operaio di 35 anni, Alessandro Morricella, di professione colatore, investito da una fiammata l’8 giugno 2015 e deceduto pochi giorni dopo per le ustioni riportate sul 90 per cento del corpo.

L'unico modo per evitare il decesso dell’operaio Ilva, «sarebbe stato evitare che il colatore si trovasse nella direttrice del foro di colata al fine di effettuare il prelievo della temperatura», ha messo nero su bianco la giudice del tribunale di Taranto, Federica Furio, nelle motivazioni della sentenza di primo grado diffuse qualche giorno fa che Domani ha visionato, e che hanno portato alla condanna a sei anni di carcere: Ruggero Cola, l’ex direttore della fabbrica al tempo sotto l’amministrazione dello Stato, a 5 anni i dirigenti Vito Vitale e Salvatore Rizzo, stabilendo al contempo il risarcimento per le parti civili, la Cgil e la Fiom di Taranto che si erano costituite in giudizio attraverso gli avvocati Claudio Petrone e Massimiliano Del Vecchio.

Dunque, nonostante i presunti tentativi di insabbiare le indagini da parte dell’allora capo della procura tarantina, Carlo Maria Capristo, come ha già raccontato Domani, oggi per quella morte si intravede un barlume di giustizia. Ma c’è molto di più.

Infatti, secondo la giudice che ha ottenuto la condanna dei dirigenti, «se anche il Morricella avesse indossato la cappottina e le ghette alluminizzate, composte dello stesso materiale dei guanti, avrebbe avuto comunque lesioni da calore sul 90 per cento del corpo»; e, dunque, l’errore della governance dell’Ilva (allora, come oggi, sotto l’amministrazione straordinaria dello Stato) è stato a monte, cioè la colpa è precedente.

Perché, sì, i Dpi, «le misure di protezione collettive e individuali adeguate sono risultate gravemente manchevoli, erronee, superficiali e totalmente inadeguate», ha scritto la magistrata; ma per quella specifica mansione, ancora secondo la giudice Furio, «non è stato assolutamente considerato che quella del colatore che procedeva alla misurazione della temperatura era l'unica mansione che prevedeva che il colatore si posizionasse lungo la direttrice del foro di colata dal quale poteva fuoriuscire materiale incendiario, gas Afo e ghisa liquida».

Detta in altri termini: l’uomo non doveva trovarsi in quel punto e l’Ilva avrebbe dovuto considerare, per scongiurare quel rischio, «metodi di misurazione della temperatura automatizzata». Si legge nelle oltre duecento pagine del provvedimento: «Il rischio poteva agevolmente essere eliminato alla fonte con un semplice e poco dispendioso adeguamento tecnologico che la società Ilva Spa ha deliberatamente evitato di porre in essere».

E se ciò non è avvenuto, quindi, «è perché l'omesso adeguamento tecnologico del piano di colata ha certamente comportato un risparmio di spesa per la società», chiarisce ancora la giudice Furio: «Ci si trova dinnanzi ad un'organizzazione della sicurezza basata su strumenti organizzativi e tecnici obsoleti ed inefficienti (prelievo manuale della temperatura) e tanto deve ritenersi per risparmiare la spesa per l'acquisto di nuovi macchinari».

Cambiare niente

Parole dure come pietre che danno la cifra di un modello di organizzazione aziendale palesemente obsoleto che tutto si gioca sul risparmio di tempo e denaro, «esponendo i lavoratori a gravi rischi per non attendere più tempo fra una colata e l'altra al fine di massimizzare i profitti producendo più ghisa allo stesso tempo», concludono i giudici di Taranto. Forse la pensano diversamente dalle parti di Via Molise, a Roma, sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy dove è stata costituita la nuova governance dell’ex Ilva in amministrazione straordinaria dopo la fine dell’era Mittal.

Già, perché, non solo come ha riportato La Gazzetta del Mezzogiorno, il nuovo commissario straordinario dell’impresa per il momento a trazione pubblica, Giancarlo Quaranta, è stato condannato pure lui in passato per la morte di due operai, ma anche perché tra i consulenti del nuovo corso di Ilva e del neo-direttore Giuseppe Cavalli, compaiono, come ha anticipato Il Sole 24 Ore, proprio il manager Ruggero Cola, giudicato responsabile in primo grado del reato di omicidio colposo per la morte di Alessandro Morricella; e Salvatore De Felice, interdetto a vita dai pubblici uffici e condannato in primo grado nell’ambito del processo “Ambiente Venduto” a diciassette anni di carcere per avvelenamento di acque e sostanze alimentari.

E se questo è il nuovo corso della grande fabbrica di Taranto, c’è da poco da stare tranquilli. E allora occorre considerare per buona la testimonianza davanti ai magistrati, e intrisa di fatalismo, di Salvatore Talò, tecnico del campo di colata all’interno dell’altoforno 2: «Sono 21 anni che faccio questo mestiere ed abbiamo imparato l’imprevedibilità dell’evento. Ricordo che gli anziani che ci hanno insegnato questo mestiere, ci dicevano di stare comunque sempre attenti al forno di colata. Di non passare lì vicino con tranquillità», ha detto in aula l’operaio: «Non avevamo l’ordine di non passare, ma era una raccomandazione molto sentita. È capitato spesso che i colleghi si ustionassero, anche se le ustioni erano sopportabili».

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