La sera di sessant’anni fa, il 9 ottobre 1963, alle 22.39, 300 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dalle pendici del monte Toc, in Friuli-Venezia Giulia, precipitando nel bacino artificiale della diga del Vajont. Dino Buzzati descrisse così quanto accaduto, sulle pagine del Corriere della Sera: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi».

L’onda d’acqua, sollevata dalla frana, si abbatté su Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Fae’, Erto, Casso e sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata e Il Cristo. Giampaolo Pansa, inviato dalla Stampa, iniziò così il suo reportage: «Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont». Morirono migliaia di persone.

In occasione dell’anniversario, pubblichiamo un estratto dal libro La tragedia del Vajont, Ecologia politica di un disastro, di Marco Armiero, appena pubblicato da Einaudi.


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Ore 22:39

A molti sarà capitato di sentirsi immobilizzati nel proprio letto, magari al risveglio. Gli esperti chiamano questo fenomeno paralisi ipnagogica, ma per tutti gli altri è solo una brutta sensazione che dura al massimo pochi minuti.

Per Micaela Coletti, la presidente del Comitato sopravvissuti del Vajont, invece, era l’inizio del diluvio. Mentre la nonna ordinava alla sorella di chiudere le imposte per proteggersi da quello che sembrava un temporale, Micaela si trovò risucchiata nel disastro del Vajont. Così ricordava quei momenti in un’intervista raccolta dal Comitato:

…una folata di vento che arriva da lontano e fa sbattere le imposte, poi… un rumore sordo, fondo, la sensazione che il letto prendesse velocità, una forza spaventosa che mi prendeva alla schiena, mi piegava in due, mi schiacciava; la sensazione di essere di gomma, di allargarmi e poi restringermi, gli occhi diventati due stelle; una pressione enorme che mi tirava per i capelli, che mi risucchiava in un pozzo senza fine; mi inchiodava le braccia al corpo senza possibilità di muovermi; un gran male alla schiena giù in fondo; l’impossibilità di respirare…!

Questa forza che mi teneva legata non so a cosa mi ha fatto arrabbiare! Ricordo di aver pensato: «No! non voglio lasciarmi andare!», anche se sembrava la sola cosa da fare. Ho, con tanta fatica, alzato un braccio, mi sono toccata la faccia cercando gli occhi, il naso, la bocca; mi sembrava di essere diventata sottile, schiacciata, senza spessore; ho alzato le braccia sopra la testa… cercavo qualcosa da toccare… e poi… il nero. Nero totale.

Trascinati

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Malgrado si sentisse schiacciata, quasi immobilizzata nel suo letto, Micaela fu trascinata per almeno 400 metri lontano da casa. Anche Giuseppe Sacchet venne ritrovato lontano da casa sotto le macerie, ancora adagiato sul suo materasso.

Nella sua intervista sulla notte del disastro, Giuseppe trasformava quel materasso in un tappeto volante che lo aveva trasportato sulle acque del Vajont. E lo stesso successe a Renzo che finì, completamente nudo, sui gradini del municipio. La sorella fu ritrovata morta a trenta chilometri dalla loro abitazione, il cadavere del padre a Fortogna.

Matelda fu risucchiata da una gigantesca voragine che si aprì nel pavimento di casa sua. Trascinata dall’acqua e dal fango, Matelda rimase poi intrappolata con il piede sotto le macerie con un trauma cranico che le provocò la paralisi di una parte del volto.

Galleggiare

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I piú fortunati, coloro che non finirono sotto le macerie, raccontano l’orrore di avere visto il disastro troppo da vicino. Luigi Rivis aveva diciotto anni e già lavorava come perito per la Sade; in una intervista per una emittente locale, Luigi raccontava di come avesse realizzato la gravità dell’evento.

Vedendo pochi veicoli di emergenza in uscita da Longarone, Luigi si era illuso che i danni fossero stati contenuti, ma andando con le torce sulle sponde del Piave scorse tra i cespugli «un corpo, nudo, che però non era intero», e aggiunge: «allora abbiamo capito che qualcosa di grosso era successo».

Anche Italo Filippin è tra i fortunati che riescono a mettersi in salvo; come racconta in un breve memoriale su quella notte:

Ricordo una fuga disordinata, le urla… Qualcuno prese l’iniziativa di accendere dei fuochi, attorno ai quali i superstiti cominciarono a raccogliersi e a contarsi. [...] Quando arrivò l’alba sembrava di essere da un’altra parte, non si riconosceva più la valle. Molte borgate erano state letteralmente spazzate via, non c’era più nulla. Il livello del lago, riempito dalla montagna, si era alzato di quasi 20 metri se non ricordo male. Sulla superficie galleggiava di tutto, cadaveri, macerie, masserizie, suppellettili.

Una spalla

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Anche per un altro superstite, Gino Bonsembiante, il ricordo del Vajont si associava ai corpi mutilati, senza braccia e testa, che gli erano rimasti impressi nella memoria. Davvero come il mostro che Micaela aveva immaginato sotto il suo letto, il Vajont aveva divorato le sue vittime sputandone via i resti nel fiume di fango e detriti che lasciava al suo passaggio.

Maria Pia Bassetto, giovane impiegata postale in servizio a Longarone, ricorda i soccorritori uscire da un sottopassaggio che dal Piave portava a Fortogna trasportando sulle spalle i cadaveri straziati recuperati sul greto del fiume. Tutto intorno i corpi di animali morti nel disastro, con il ventre gonfio e le zampe all’aria. Nel suo libro di memorie sul Vajont, Giuseppe Vazza descrive lo stesso orrore; come in un macabro bosco di morte, parti umane pendevano dai rami degli alberi:

Ricordo che rovistammo tra i rami di una grossa pianta con le radici per aria, vedemmo sporgere dai rami e dalla ghiaia un braccio, ci facemmo un po’ di spazio tutto intorno e provammo a tirare per la mano sperando che uscisse anche il corpo, invece era soltanto una spalla di donna staccata dal resto del corpo. Chiamammo alcuni militari che erano nei dintorni per farci aiutare, ma là non c’era più niente.

Il rumore della fine del mondo

Erano bastati pochi minuti per cambiare radicalmente il paesaggio tra la diga e Longarone. Tutti i sopravvissuti fanno riferimento al senso di straniamento che li assalì quando si affacciarono la prima volta sulle rovine del disastro.

Nel video corale promosso dal Corriere delle Alpi per celebrare i cinquant’anni dall’evento, Bruno Pradella e Rita Marogno raccontavano il loro sconcerto quando nei momenti dopo l’inondazione si ritrovarono in un ambiente irriconoscibile. Niente assomigliava al mondo che avevano abitato fino a pochi minuti prima.

Ma il diluvio del Vajont non si sperimentava solo con gli occhi. Tutti i sopravvissuti ricordano il rumore, un rumore inenarrabile che accompagnò la frana e la successiva alluvione. È Gervasia Mazzucco, undici anni nel 1963, a fornire la migliore descrizione del rumore di quella notte:

Non è che si senta il rumore dall’altra parte della montagna, si è dentro a una cosa immensa e mia nonna che ha detto: è la fine del mondo.

Le grida

Il ricordo di Gervasia è particolarmente potente perché con poche parole riesce a dare un’idea del tipo di rumore scatenato dalla frana; qualcosa che sebbene venga dalla montagna non resta fuori ma entra dentro le persone, assorbe le case, diventa come un grande blob che incorpora tutto.

La voce della nonna di Gervasia che annuncia l’apocalisse sembra fondersi con il rumore indicibile del diluvio, quasi che questa vecchia montanara avesse trovato il codice per tradurre quel suono sconosciuto con parole umane.

Nel ricordo di altri superstiti, invece, il rumore soprannaturale della frana si mischia a suoni molto più umani. Vittore Zannol, ad esempio, associa il suono profondo del Toc che precipita nel lago alle grida dei bambini che dalla casa vicino alla sua chiedevano disperati aiuto alla loro madre.

Poi il silenzio

Rumore e vento si muovono insieme nella notte del Vajont. Bepi Vazza racconta del «vento micidiale, impossibile» di quella notte. Un vento che penetrava nella bocca, nelle narici, negli occhi. Come Gervasia, anche Bepi descrive un disastro che rompe le barriere tra il mondo là fuori e i corpi; acqua, fango, rumore e vento abbattono ogni difesa, entrano ovunque e incorporano ogni cosa.

La terra tremava e sobbalzava fuori di misura, – scrive Vazza, – il rumore aumentava sempre di più, non lo sentivi con le orecchie, usciva dalla terra, ti entrava dai piedi e ti attraversava il corpo fino a farti scoppiare la testa. Era quasi impossibile sopportarlo.

Il vento era così forte da togliere il respiro, come racconta Elsa Capraro, che quel 9 ottobre compiva ventidue anni. Elsa credeva che fosse stata la paura a mozzarle il fiato mentre sotto l’arco della porta recitava una preghiera per prepararsi alla morte.

Solo dopo ha scoperto che non la paura ma lo spostamento d’aria causato dall’acqua scagliata a tutta velocità nel canyon del Vajont era stato la causa della sua apnea. Il vento forte bloccò Bepi Vazza mentre tentava di raggiungere la sua abitazione e salvare sua madre; si sentì strappare gli abiti da dosso e poi fu sollevato e sbalzato via.

Fu un altro superstite ad aiutarlo evitando che il vento lo trascinasse lontano. E dopo tanto rumore, fu un silenzio surreale ad accogliere i primi soccorritori che arrivarono tra le rovine del Vajont.



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