L’altra metà di Liverpool è una frontiera scomparsa. Il ventre molliccio del calcio globale e della sua fatale attrazione per l’economia opaca. Qui si parla di Everton Football Club, la società più ambita dai capitani della finanza calcistica globale proprio perché facilmente contendibile, con quel passato recente ricco di punti oscuri.

I signori Friedkin padre e figlio lo sanno bene, sono al corrente di tutto ciò. Per questo hanno deciso di mettere le mani su un club che, nonostante le sventure recenti, rimane un pezzo fondamentale del calcio inglese e della sua tradizione. Del resto, anche i proprietari dell’AS Roma viaggiano sulla giostra impazzita del football delocalizzato, la medesima che sta facendo degli Anni Venti il decennio del riassetto geoeconomico del calcio.

A dominare questo decennio sono i capitali Usa con la loro passione per la multiproprietà. Fa parte del loro modo di vedere il calcio come attività che fa parte di un vasto portafoglio dell’entertainment, cioè l’economia cruciale del Ventunesimo secolo. Quella in cui vincere non è tutto e la produzione di valore finanziario è l’unica cosa che conta.

Rimane sullo sfondo proprio il tema delle multiproprietà. Che continua a essere visto come una mera questione da conflitto d’interessi, e invece è molto altro. Perché testimonia di una redistribuzione di poteri che vede sempre più la vecchia Europa esprimere un capitalismo stanco e fragilizzato, vulnerabile alle incursioni esterne.

Fra Tortola e l’oligarca

Tanto screditato quanto ambito. La vita recente dell’Everton è stata contraddistinta da una serie di passaggi opachi.

Il punto più basso è stato toccato durante la scorsa stagione, con la penalizzazione di 10 punti (successivamente ridotta a 6 punti) per mancato rispetto dei parametri di sostenibilità finanziaria fissati dalla Premier League. Ma in fondo questo passaggio fa parte della storia ufficiale dei Toffees. C’è invece una parte meno trasparente, fatta di finanziamenti eterodossi e assetti proprietari mai chiariti.

Il club di Goodison Park (stadio che verrà abbandonato a fine stagione, con trasferimento nel nuovo e suggestivo impianto del Bramley-Moore Dock, lungo il fiume Mersey) è stato coinvolto assieme ad altri della Premier, all’inizio degli Anni Dieci, nella vicenda dei rapporti con Vibrac Corporation, una società finanziaria con sede presso le Isole Vergini Britanniche.

Vibrac si era specializzata in operazioni di factoring su crediti da diritti televisivi o da calciomercato. In quella circostanza la Premier League ha indagato per capire come mai alcuni club inglesi (coinvolti anche Fulham, Reading, Southampton e West Ham) si facessero anticipare denaro da un soggetto misterioso con sede presso un paradiso fiscale. E parecchio alimento all’indagine è stato dato da Watched Toffees, un sito web fondato da tifosi dell’Everton che non accettano la deriva affaristica del club.

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Non soltanto il caso Vibrac ha messo in discussione la reputazione dell’Everton. Una vicenda ancora più controversa riguarda la posizione dell’oligarca russo Alisher Usmanov, che è stato azionista di maggioranza dell’Arsenal e presidente della federazione mondiale della scherma fino a che non sono arrivate le sanzioni internazionali causate dall’invasione russa in Ucraina.

Usmanov è stato sospettato di essere il proprietario occulto dell’Everton. Al di là delle ipotesi e delle speculazioni, esiste una vasta documentazione da cui si evince che Farhad Moshiri (il proprietario uscente del club con cui i Friedkin hanno raggiunto l’accordo) ha ricevuto finanziamenti per 400 milioni di sterline (quasi 480 milioni di euro) dall’oligarca. Tra le due parti è adesso in corso un contenzioso.

Il vizietto della multiproprietà

Eppure il club ha avuto la fila di aspiranti acquirenti. Con le compagini statunitensi in prima linea, sempre pronte ad agire nella logica della multiproprietà.

I primi a entrare seriamente in trattativa (il passaggio di proprietà era stato dato per acquisito) sono stati i signori di 777 Partners, il fondo che fino a pochi mesi fa è stato proprietario del Genoa e di altri club sparsi tra Europa e Sud America, salvo andare incontro a una fine ingloriosa. Poi è toccato a John Textor, che tramite Eagle Football Holdings è proprietario del Lione in Francia, del Molenbeek in Belgio e del Botafogo in Brasile, oltreché azionista del Crystal Palace (altro club della Premier).

Detestato ovunque abbia messo piede per lo stile proprietario alquanto ruvido, Textor ha desistito lasciando il campo libero ai Friedkin. Che dal canto loro, quando il passaggio di proprietà dell’Everton verrà perfezionato, si troveranno a gestire la condizione di multiproprietà con l’AS Roma. La notizia dell’accordo per la cessione dei Toffees è arrivata giusto in questi giorni caldissimi dell’esonero di Daniele De Rossi e delle dimissioni della Ceo Lina Souloukou.

Tutto ciò pone ulteriore incertezza in una situazione già precaria, che adesso assume contorni paradossali. Perché la tifoseria romanista contesta i Friedkin, ma al tempo stesso teme che un loro disimpegno repentino peggiori la situazione. Come venirne fuori?

Il nuovo asse geoeconomico

L’interrogativo troverà risposta nelle prossime settimane. Per il momento ci si deve confrontare con una certezza: lo spostamento dell’asse geoeconomico, sempre più proiettato fuori dall’Europa. I capitali extraeuropei comprano club europei di ogni taglia. E li inseriscono in sistemi multiproprietari che vedono i club europei come punti di approdo, mentre le decisioni strategiche vengono prese altrove.

I capitali che provengono dagli Usa e dalla penisola araba dettano le regole. E nel frattempo succede che paesi un tempo periferici nell’economia globale del calcio, come il Brasile, assumano un altro rilievo. Ciò è stato reso possibile dall’approvazione della legge che a fine 2021 ha aperto in Brasile la strada alla Sociedade Anônima de Futebol (SAF), una forma di società per azioni specificamente tagliata sul calcio che consente l’ingresso agli investitori privati.

Da quel momento è stata una corsa a trasformare in SAF anche club di seconda e terza serie, con l’intento di sfruttare in modo intensivo la miniera di talento calcistico che è il Brasile. Uno sfruttamento che risulta ancora più diretto nel caso di montaggio di uno schema multiproprietario che prevede il controllo di un club europeo. In quel caso, il transito dei calciatori sudamericani verso l’Europa avviene in modo diretto, con strutturazione di uno schema economico-finanziario tutto in house.

Rimanendo al caso dell’Everton e dei suoi mancati acquirenti statunitensi, va ricordato che oltre a Textor (proprietario del Botafogo) anche 777 Partners si era annesso un club brasiliano (il Vasco da Gama). E a questo punto c’è chi va un passo avanti nell’esperimento. Per esempio, il Flamengo. Che oltre a essere il principale club brasiliano è anche al centro di un’espansione geoeconomica.

Per questo mira a comprare un club in Portogallo. Ne farà un satellite. Ci aveva provato col Tondela, ma poi l’affare non si è realizzato. Sta invece andando tutto liscio col Leixões, club con sede a Matosinhos (cintura metropolitana di Porto) che gioca in Segunda Liga. Sarebbe l’ennesimo colpo alla centralità del calcio europeo e al suo declinante capitalismo.

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