La storia di Salvatore Antonio Monda, assistente capo della polizia penitenziaria a Lecce, che morì per un carcinoma polmonare. In tribunale è stato dimostrato il nesso causale tra la malattia e l’esposizione al fumo passivo sul posto di lavoro, tra il 1997 e il 2011
Non solo pasti scadenti, docce in condizioni indicibili e spazi esterni inesistenti così come denunciano i detenuti del carcere di Fuorni, a Salerno, nella lettera tramite cui hanno aderito allo sciopero della spesa avviato anche dai carcerati di altri penitenziari italiani.
Nelle strutture di detenzione c’è un ulteriore diritto che spesso viene meno ed è quello alla salute. Perché sì, «in carcere non esiste un divieto di fumo tout court», spiega Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Tuttavia «nelle celle, ad esempio, i detenuti possono fumare» le sigarette che comprano come sopravvitto, potendo determinare un grave pregiudizio per chi, invece, è un non fumatore. E intaccando, nonostante chi «non fuma può volendo chiedere di essere spostato di cella», la prerogativa a vivere in ambienti salubri.
La storia
Salvatore Antonio Monda aveva svolto le funzioni di assistente capo della polizia penitenziaria prima a Milano, poi a Taranto e, infine, dal 1997 al 2011 nel penitenziario di Lecce. Morì proprio nel 2011 a causa di un carcinoma polmonare pur non essendo, lui come la moglie, fumatore.
In primo grado il tribunale di Lecce ha accertato la presenza di un «nesso causale tra l’esposizione lavorativa di Monda al fumo passivo sul luogo di lavoro e l’insorgere della neoplasia polmonare ed il successivo decesso». In altre parole l’uomo era stato «costretto ad inalare passivamente il fumo derivante dalla combustione delle sigarette per almeno 6 ore» a ogni turno lavorativo. D’altronde, scrive il giudice, non solo la «concentrazione del fumo nei corridoi antistanti le celle dei detenuti era tale da formare una "nebbia”, come in una “camera a gas”», ma negli stessi corridoi non vi erano neanche «aspiratori», così come «non vi erano reparti per non fumatori».
Dunque, per il fatto che – nonostante le norme, tra le altre, volte a rendere disponibili locali chiusi riservati ai fumatori, contrassegnati come tali, purché dotati di impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti – l’amministrazione «non aveva adottato provvedimenti volti a sanare detta situazione» e, ancora, per il fatto che il ministero «omise di predisporre adeguate misure di prevenzione», il tribunale nel 2023 ha condannato il ministero al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di circa un milione di euro nei confronti della moglie e i figli di Monda.
Oggi, la Corte d’Appello di Lecce, con la pronuncia del 9 aprile scorso, dice, inoltre, “no” alla richiesta del ministero della Giustizia di sospendere l’esecutività della sentenza, rigettando l’istanza che era stata presentata.
La scelta di Nordio
Una “vittoria” per il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, che in una nota parla di «sentenza storica», ricordando che in una vecchia interpellanza il ministro Nordio ha risposto che le sigarette ai detenuti non verranno appunto negate. «Va osservato che all’interno dei penitenziari il consumo di tabacco rappresenta una delle modalità compensative cui la popolazione reclusa ricorre a fronte del disagio derivante dallo stato di privazione materiale e psicologica connesso alla condizione detentiva; ragion per cui – replica Nordio – un intervento drasticamente riduttivo della possibilità di fumare potrebbe avere effetti destabilizzanti».
L’appello
Una storia, pertanto, che testimonia quante ombre sulla vita in carcere gravino non solo sui detenuti, vittime di un sistema che tradisce la Costituzione e i suoi principi, ma anche sugli agenti della polizia penitenziaria. «Non solo 34 suicidi tra i detenuti, ma anche quattro negli ultimi mesi tra il personale di polizia penitenziaria – denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria –. Quindi il paragone delle odierne prigioni a teatri di guerra non sembra affatto esagerato. Allora è di tutta evidenza che una situazione emergenziale, anche per il sovraffollamento detentivo (sono 14mila i detenuti in più) e l’insufficienza di operatori (al Corpo di polizia penitenziaria mancano 18mila unità) non possa essere efficacemente affrontata con misure e strumenti ordinari».
Da qui l’appello di De Fazio: «Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il governo Meloni e il Parlamento tutto prendano atto della situazione e varino un decreto carceri per affrontare le questioni preminenti e, parallelamente, si avvii un percorso di riforme complessive per l’intero apparato d’esecuzione penale e, particolarmente, per quello inframurario. Presto, nostro malgrado, si toccherà un punto di non ritorno».
Intanto il 16 maggio l’associazione “Sbarre di zucchero” si troverà dinnanzi al ministero della Giustizia insieme ai familiari dei detenuti morti per suicidio in carcere al fine di protestare contro «un sistema – dice l’associazione – fallimentare». Un modo per «chiedere – conclude l’associazione – al ministero quelle risposte che già avrebbe dovuto dare».
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