A Salerno è in corso lo sciopero dei pasti. La mobilitazione si allarga ad altri penitenziari d’Italia. Micaela Sposato dell’associazione “Sbarre di zucchero” spiega che «per il carrello pasti lo Stato spende 3 euro al giorno a detenuto». Ma l’elenco delle rivendicazioni riguarda molti altri aspetti della vita carceraria
È una «protesta pacifica» quella dei reclusi nel carcere di Fuorni, a Salerno. D’altronde l’hanno definita così quando hanno enumerato, punto per punto, i disagi che vive quotidianamente chi, come loro, si trova in stato di detenzione. Disagi tali da spingerli a una decisione drastica. Niente più «carrello del vitto cucina», niente più spese al di fuori del penitenziario se non quelle che garantiscano la «sopravvivenza».
Questo sciopero è dunque spia di diritti negati e sommersi, quelli che i detenuti nel carcere campano hanno condensato nei due fogli protocollo indirizzati ai vertici del carcere di Fuorni, al tribunale di sorveglianza di Salerno e al Dap. Uno sciopero che rivendica le prerogative di tutti coloro si trovino in una cella, dietro le sbarre, in Campania come nei penitenziari delle altre regioni italiane.
«Scioperiamo perché negli istituti penitenziari è impossibile eseguire una pena detentiva che rispetti i diritti umani. La carenza di magistrati, cancellieri, educatori e assistenti sociali implica ritardi enormi nel fissare le udienze e, ancora, per l’ottenimento di permessi premio e liberazioni anticipate o misure alternative», scrivono i detenuti di Fuorni.
L’elenco delle mancanze riscontrate è così lungo che quei residui di libertà che ciascuno di loro dovrebbe mantenere vengono ridotti a brandelli microscopici. La Corte Costituzionale trent’anni fa in una sentenza storica scrisse appunto che «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità». Parole che sembrano essere rimaste lettera morta.
«Pasti di tre euro»
«Si tratta di persone che non stanno chiedendo una riduzione di pena, ma solo di scontarla in modo dignitoso», commenta Micaela Sposato di “Sbarre di zucchero”, l’associazione che, da Verona, si batte per i diritti dei detenuti in Italia. «Quello che i ristretti dei penitenziari del Paese hanno iniziato – continua Sposato – è un vero e proprio sciopero della fame. A protestare, di fatti, sono anche i detenuti del carcere di Rebibbia, che hanno iniziato da lunedì 6 maggio, e quelli, tra gli altri, di Padova e di Pesaro. Il carrello pasti che ricevono è del resto indicibile: lo Stato spende circa 3 euro a detenuto per colazione, pranzo e cena complessivamente; mentre il sopravvitto ha costi altissimi. Chissà se il governo, prima o poi, ascolterà questi loro, nostri appelli».
Intanto proprio davanti al ministero della Giustizia, giovedì 16 maggio, “Sbarre di Zucchero" si radunerà insieme alle famiglie dei detenuti che in carcere si sono suicidati. «Qualcuno - conclude la rappresentante dell’associazione che ha referenti su tutto il territorio nazionale - dovrà ascoltarci».
I garanti: «Inerzia dalle istituzioni»
Anche il direttivo della Conferenza nazionale dei garanti territoriali dei detenuti, nei giorni scorsi, ha lanciato un appello, denunciando più in particolare la «sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei reclusi».
«Nell’inerzia delle istituzioni – continua il direttivo – si sta allungano l’elenco delle persone detenute che, da gennaio 2024, si sono tolte la vita: ad oggi, sono 34 le persone detenute suicide. Altrettanto preoccupante è l’aumento dei casi di autolesionismo e il dilagare di fenomeni di violenza e di tortura “sistemica” che si consumano nelle carceri italiane, come testimoniato anche dalle recenti indagini giudiziarie riguardanti i fatti consumati nel carcere di Reggio Emilia o, ancor più drammaticamente, l’inchiesta sulle violenze poste in essere in danno di soggetti minori, reclusi presso l’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano. Numeri e fatti impressionanti – proseguono i garanti – che richiedono, nell’immediato, l’adozione di soluzioni che rendano le carceri luoghi davvero rispettosi della dignità umana e vivibili, sia per chi vi è recluso sia per chi ci lavora».
Utopia? Col problema del sovraffollamento – pari al 130,03 per cento, con un totale di 61.351 detenuti a fronte di una capienza effettiva ammontante a 47.180 posti nei penitenziari italiani – le speranze sono poche, pochissime. Da qui, pertanto, le richieste del direttivo: dall’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento fino a, come si diceva, interventi migliorativi delle condizioni detentive. «Indignarsi – scrivono i garanti – non basta più».
Ebbene sì, non basta indignarsi, cosa che succede sempre più spesso davanti alle cronache che descrivono condizioni di detenzione che non rispettano nessun principio costituzionale. E davanti, per esempio, ai due fogli A4 dei detenuti di Fuorni. Dal carcere salernitano chiedono anche il «ripristino delle docce (…), di risolvere al più presto il problema dell’immondizia, di implementare il servizio Caritas». Di essere, insomma, trattati come persone.
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