Dall’uscita di Gattabuia, il podcast di Domani prodotto da Emons Record sulla vita quotidiana nelle carceri italiane, molte sono state le reazioni e i riscontri ricevuti. Non solo da parte delle ascoltatrici e degli ascoltatori che si sono avvicinati a questa inchiesta con la curiosità di conoscere un mondo distante, sigillato e spaventoso qual è il carcere, di cui comunemente si sa poco, ma anche da parte di insegnanti che hanno fatto ascoltare il podcast ai propri alunni, di circoli culturali che chiedono di organizzare dibattiti e presentazioni, di associazioni che operano negli istituti penitenziari e ne hanno discusso con i detenuti, di radio ed emittenti televisive che mi hanno invitata ad intervenire per discuterne.

Una delle notizie più felici arriva da un agente penitenziario, che in un messaggio scrive: «Sono stato una settimana a Parma per un corso di alta formazione alla Scuola dell’Amministrazione penitenziaria. È stato davvero interessante e orientato verso un carcere più giusto, anche se, come sappiamo, ci vorrà molto tempo. Durante il corso si è parlato molto di Gattabuia, che è stato ascoltato da comandanti, agenti, garanti dei diritti dei detenuti».

Un equilibrio difficile

Durante la scrittura di Gattabuia, la difficoltà maggiore è stata quella di mantenere un tono che fosse equilibrato. E quando si parla di carcere tenersi in equilibrio è difficile. C’è il dolore che l’istituzione infligge ai detenuti e quella che i detenuti hanno inflitto alle vittime dei loro reati. C’è la violenza con cui gli agenti penitenziari si relazionano con la popolazione reclusa, e quella dei reclusi contro gli agenti.

C’è la violenza della struttura edilizia e la dimenticanza istituzionale in cui il carcere è costretto a operare – sotto organico, carente di risorse, di spazi, di strumenti per rispettare il dettato costituzionale che vuole che la pena sia volta alla rieducazione del condannato – e c’è, più di tutto, l’indifferenza, che a volte diventa vero e proprio disprezzo, che si riserva al mondo-carcere nella sua interezza: l’istituzione reietta per definizione, un agglomerato di marginalità sociali da una parte e professionali dall’altra.

E dunque, nella scrittura, dicevo, ci siamo imposti di stare in equilibrio tra queste contraddizioni e queste ingiustizie, avendo cura che il tono, la scelta delle parole e dei testimoni, dei punti di vista e dei racconti, del ritmo e delle musiche, cercassero di restituire almeno in parte questa complessità. Che Gattabuia sia stato ascoltato trasversalmente, da chi è già sensibile al tema come da chi non se ne è mai interessato, da chi fa attivismo fino a chi lavora in carcere, indossando la divisa della polizia, è un risultato che ha una rilevanza che mi azzarderei a definire politica, se politica vuole ancora dire il tentativo di vivere in comune armonizzando posizioni e necessità diverse, d’accordo però su alcuni valori fondamentali quali il rispetto della dignità umana.

Matrioska

Un altro dei riscontri più preziosi è venuto dai detenuti e gli ex detenuti, uomini e donne che hanno vissuto il carcere sulla loro pelle e sanno meglio di qualunque studioso o giornalista che cosa significhi. «Stavo in una cella in un piano dismesso del carcere di Modena con gli schizzi di sangue sul muro e la turca. Per lavare il sangue ho allagato la cella» scrive in una mail Teresa, una donna che ha passato 19 anni in carcere e altrettanti anni agli arresti domiciliari, concessi per motivi di salute. Mi racconta di aver ascoltato ogni puntata almeno due volte, ripercorrendo la propria vita nelle sezioni di alta sicurezza delle prigioni italiane a partire dagli inizi degli anni Novanta.

«Usi la metafora della matrioska per descrivere l’edilizia carceraria, ed è una matrioska anche la narrazione che si dipana nel corso delle puntate, dalla descrizione del labirinto fisico, spoglio e povero di stimoli alla deprivazione sensoriale che provoca, a cui seguono le relative malattie. Ho avuto esperienza diretta della voluta iper-burocratizzazione per accedere a qualsiasi necessità del detenuto, spogliato della sua identità e infantilizzato, al punto che per avere attenzione da parte dell’istituzione arriva al ferimento autoinferto. Come dici nel trailer, è la vita che resta a essere raccontata».

Io e Teresa ci siamo scritte e poi ci siamo sentite al telefono. Le ho chiesto di raccontarmi la sua storia: «L’ascolto di Gattabuia mi ha riportato ai miei quasi 19 anni di detenzione. Mi sento il prodotto di quei 19 anni: malata, isolata, depressa, e per certi versi disadattata alla vita comunitaria. Allo stesso tempo mi considero miracolosamente piena di risorse, alla continua ricerca di un contatto umano e culturale. Sono riuscita a conservare una certa vitalità, nonostante tutto il dolore passato» continua.

Teresa racconta di aver passato i primi anni in isolamento, con una “guardiana” seduta davanti alla cella. Per la notte aveva trovato uno stratagemma: posizionava uno sgabello sulla rete metallica della branda e svitava la lampadina appesa al soffitto, così da evitare le continue accensioni della luce che le interrompevano il sonno. L’ora d’aria le era concessa in quello che definisce «un canile di due metri per quattro», con una rete metallica a coprire il cielo; la doccia una sola volta a settimana ma le battiture delle inferriate della cella invece tre volte al giorno: alle 8 di mattina, alle 14 e alle 22.

Il risveglio carcerario

La battitura è una pratica antica e ancora comune in tutte le carceri: i poliziotti battono il metallo delle sbarre per accertarsi che i detenuti non le stiano segretamente segando per evadere. «Ti dico che durante la mia detenzione sono stata trasportata al centro clinico di Pisa per un intervento chirurgico e sono rimasta collegata al drenaggio per sei giorni. Non mi hanno mai portato da mangiare. Mai. Però venivano a farmi la battitura», ricorda la detenuta, e ne rievoca il rumore disturbante riprodotto dal sound-design curato dalla musicista Federica Furlani, che nel primo episodio di Gattabuia restituisce l’universo sonoro di un risveglio carcerario tra battiture, rumori di chiavi, aprirsi e chiudersi dei blindi, grida e televisori che trasmettono il telegiornale del mattino.

Anche quando le condizioni di detenzione di Teresa sono migliorate, il doppio isolamento che viene dall’essere donne in un’istituzione pensata per contenere solo uomini non ha smesso di condannare lei e le sue cinque compagne di sezione a un grande senso di solitudine. «Il carcere non soddisfa nessuna minima garanzia di dignità per le donne. Ancora meno per le donne detenute per reati politici, rigorosamente separate dalle detenute comuni. Ma essere numericamente minoritarie non significa non essere».

Cosa chiediamo all’istituzione carceraria?

La sesta puntata del podcast, intitolata “Fine pena mai” si interroga sul senso della pena, su cosa chiediamo, come società, all’istituzione carceraria. Matteo Gorelli, uno degli ex detenuti intervistati, afferma: «Tutti i reati vengono da due categorie: o da condizioni socio-economiche di merda, o da problemi psicologici e psichiatrici». Una constatazione che Teresa definisce «semplice e folgorante», e che riscontra ripesando alle persone conosciute tra le mura della prigione: «È sempre la povertà, intesa in ogni senso possibile, a essere all’origine della devianza e dunque della detenzione. E allora, in una società dove la povertà cresce sempre di più, come possiamo pensare a un tipo di carcere, diverso da quello che tortura, punisce e depriva le persone che dovrebbe risocializzare?» aggiunge.

D’altronde, lo scrivevano Franco Basaglia e Franca Ongaro già più di cinquant’anni fa: «Nella società dell’abbondanza-fame o c’è “abbondanza” o c’è “fame”. Ma la fame non può manifestarsi brutalmente per ciò che è, ma deve venir velata e schermata attraverso le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza, colpa».

I due psichiatri hanno lottato per chiudere i manicomi, e ora abbiamo la legge 180. Quale tipo di riflessione possiamo oggi elaborare su un’istituzione come quella del carcere? Gattabuia prova a rispondere a questa domanda mostrando che il carcere, così com’è, non è una risposta alla povertà e alla criminalità, ma solo un loro prolungamento e rafforzamento. Se crediamo in una giustizia che non lasci indietro nessuno, dobbiamo avere il coraggio di ripensarlo dalle fondamenta.


Giovedì 20 febbraio Gattabuia sarà presentato a Roma alla Libreria Zalib, in via della Penitenza, 35, alle 18.30. Isabella De Silvestro sarà in dialogo con Federica Delogu. Con le musiche originali del podcast eseguite live dalla sound designer Federica Furlani.


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