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Per Mura c’erano due tipi di giornalisti di ciclismo: quelli con la gastrite che ordinavano sempre riso in bianco e una fettina di vitello e quelli senza gastrite che ordinavano di tutto e di più.
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Amava i luoghi semplici che sanno raccontare con un piatto chi c’è di là in cucina e cosa sa offrire il territorio circostante se si ha voglia di fare quattro passi al mercato locale.
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Le sue recensioni non assegnavano voti e non esprimevano pareri feroci. Una giornata storta poteva capitare a tutti e allora meglio impiegare lo spazio a disposizione per suggerire i locali affidabili e non quelli da evitare.
Amava giocare con le parole, Gianni Mura, e ogni occasione era buona per anagrammare nomi, cose o situazioni in cui si trovava coinvolto. Anche quando si trattava di cibo. Soprattutto quando si trattava di cibo che - insieme allo sport - era il suo mondo. Forse perché aveva compreso prima di molti che tanto nell’uno quanto nell’altro bastava grattare un po’ la superficie per scoprire storie e conoscere persone.
Chi lo ha conosciuto conserva di lui un ricordo intimo e personale, ma tutti concordano nel dire che era a tavola che il giornalista sapeva dare il meglio di sé perché - sosteneva – condividere un pasto era una delle cose più belle che la vita potesse offrire. Diceva (e aveva ragione, enigmisticamente parlando) che Giuda fosse l’unico anagramma possibile di guida e questo già spiega quale sia stato il suo approccio al mondo dell’enogastronomia. Per lavoro era stato in molti ristoranti stellati, forse in tutti, ma non era lì che provava piacere.
Amava i luoghi semplici che sanno raccontare con un piatto chi c’è di là in cucina e cosa sa offrire il territorio circostante se si ha voglia di fare quattro passi al mercato locale. Del resto – notava lui - non era certo un caso che l’anagramma di osteria fosse È storia!
Il ciclismo
In Non c’è gusto - Tutto quello che dovresti sapere prima di scegliere un ristorante (Minimum fax, 2015) confessò che il suo interesse per il cibo nacque grazie al ciclismo. Per lui c’erano due tipi di giornalisti di ciclismo: quelli con la gastrite che ovunque fossero ordinavano riso in bianco e una fettina di vitello e quelli senza gastrite che ordinavano di tutto e di più.
In quale categoria si auto collocasse Gianni Mura è facilmente intuibile. Del resto se il ciclismo rappresenta il grande racconto popolare, questo non può non passare pure per le tavole delle città che attraversa. E così un giro d’Italia o un tour de France diventavano preziose occasioni per assaporare i territori. Il tempo di ricaricare le pile, svuotare piatti e riempire taccuini di note e sensazioni.
«Gianni aveva una passione smodata per il carrello dei formaggi» - racconta Alessandro Grazioli che lo ha accompagnato in diversi Tour de France - «Era il mezzo con cui prendeva le misure ai ristoranti francesi e capiva se dopo il tour ne avrebbe raccontato qualcuno nelle sue rubriche. Il bleu e il roquefort erano tra i suoi favoriti perché permettevano abbinamenti interessanti con i vini mentre il brie riteneva che fosse adatto per le fotomodelle, ma di certo non per il suo stomaco. Riconosceva ai formaggi transalpini l’onore della tradizione, ma poi aggiungeva sempre che quelli italiani erano imbattibili».
I tour di Mura erano una piccola avventura che si compiva a margine della corsa. Spesso (praticamente sempre) non c’era nulla di prenotato e per cenare ci si adattava con quello che si trovava, ma lui faceva sempre in modo di trovare qualcosa di buono. Per scegliere il cibo nelle situazioni improvvisate usava l’acronimo FBO, fai ballare gli occhi per poi aggiungere: … e quello che trovi prendi! «Mi ha insegnato che alcuni gusti sanno dialogare tra loro» - continua Grazioli - «Eravamo ad Aix-les-Bains e voleva farmi sentire come il foie gras si sposasse con un moscato locale. Il cameriere cercava di spiegargli che quello non fosse il giusto vino e litigarono per venti minuti. Alla fine ebbe la meglio Gianni».
Dare i voti
Da ragazzino non c’erano molte occasioni di andare a cena fuori e così, quando capitava, aveva l’abitudine di annotarsi su un’agendina tutti i piatti mangiati, dando loro un voto. Poi quel passatempo divenne una professione e decise di non assegnare punteggi e di non esprimere pareri feroci. Prima di tutto perché la lingua italiana sapeva spiegare meglio di un secco numero e poi perché riteneva che una giornata storta potesse capitare a tutti. Allora meglio impiegare le battute a disposizione per suggerire i locali affidabili e non quelli da evitare.
«Per non farsi riconoscere prenotava sempre a nome Moretti» - dice Giuseppe Smorto, amico e collega di una vita - «Una volta in un ristorante al sud Italia ci trattarono malissimo, poi evidentemente qualcuno lo riconobbe e iniziarono a riempirci di piatti incredibili. Lui impazzì di rabbia. Un’altra volta eravamo vicino Perugia e mangiammo benissimo. A fine cena si palesò dicendo che avrebbe recensito il ristorante, ma il titolare gli rispose che purtroppo aveva finito il budget a disposizione per pagare le recensioni. Non la prese bene nemmeno in quell’occasione».
Quel platano al Tour
Nel luglio del 1991 sta seguendo il Tour (ovviamente) e divide la macchina con alcuni colleghi uno dei quali è Aligi Pontani, all’epoca inviato de il Tempo. La sala stampa di Castres dove quel giorno arrivava la tappa era bollente, piena di gente e maleodorante. Mura sparì dai radar di Pontani per qualche ora, poi l’amico lo ritrovò: «Era sotto l’ombra di un platano. Qualcuno aveva portato lì per lui un tavolino di legno da cui spiccavano bottiglie e cibarie di ogni genere che circondavano la sua Lettera 22 verde acqua. Gianni era circondato da omoni grevi, alcuni in canottiera, che gli offrivano di tutto: vini bianchi e rossi, paté, delizie locali, salami e salumi, formaggi e frittate. Gianni scriveva, beveva, mangiava e parlava. Non avevo mai visto nessuno lavorare così, né mai avrei pensato che qualcuno potesse essere così felice mentre lavorava».
Un testamento muriano
Gianni Mura ha raccontato il mangiare, ha recensito ristoranti con sua moglie Paola, ha assaggiato tutto ma non le narici di alce bollite che gli raccomandò caldamente Nils Liedholm prima di un viaggio in Svezia. Alla carne al sangue (per lui la fiorentina era un’eccessiva esibizione di carne, potere e salute) preferiva la testina lessa o le cervella fritte. Dopo aver visto un documentario sugli allevamenti di oche smise di mangiare il foie gras, ma non giudicava chi continuava a farlo. Aveva la fobia del gas e non sapeva nemmeno farsi un caffè.
Quando dormiva in hotel evitava la colazione in camera e scendeva con il cappotto sopra il pigiama, ma sempre per andare in qualche bar esterno. Non capiva chi perdeva tempo a fotografare i piatti. Gli hanno dedicato un vino, un nebbiolo che si chiama Suiveur. Un nome romantico, un termine ciclistico che significa seguace (ma non follower!), colui che segue il tour o più in generale una grande corsa a tappe.
Ogni annata del Suiveur viene imbottigliata il 9 di ottobre, il giorno del suo compleanno. L’ultima volta che ha parlato di cibo è stata nella sua rubrica domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri”, era il 15 marzo del 2020 e diede spazio all’iniziativa di Ernesto Pellegrini (presidente dell’Inter dal 1984 al 1995) che con la sua azienda si era impegnato a donare pasti caldi per tutto il periodo del Covid agli anziani e alle famiglie bisognose di diciassette comuni lombardi.
Morirà sei giorni dopo, in quel 21 marzo in cui – in un mondo senza pandemia – si sarebbe dovuta correre la Milano – Sanremo. Una corsa serissima, come l’imperativo che esce fuori se anagrammiamo il nome di questa classica del ciclismo: Salame, non rimo! Un gioco ovviamente, ma forse Mura una rima con salame (per rispetto del salame!) non l’ha davvero mai azzardata.
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