Il fenomeno della violenza di genere, tra le sue molte pieghe, invita a riflessioni che andrebbero esplorate con attenzione, perché dilatano il 25 novembre nel passato e nel futuro, oltrepassano il femminile per riguardare tutti e scavalcano lo sport per interessare la società: non con la presunzione di dare risposte bensì per la consapevolezza di porsi utili domande.

Tra le tante una, quella che ruota attorno al significato, ai punti di contatto e di sovrapposizione tra due concetti definiti da parole che segnano la vita dell’atleta: disciplina e obbedienza. Termini separati da un sottile confine su cui si gioca la valenza positiva dell’esperienza agonistica per chi la pratica, per chi la insegna, per chi la dirige. E con essa quella della vita. Lo storico imperativo morale dell’illustre filosofa Hannah Arendt, «nessuno ha il diritto di obbedire», si riverbera sullo sport attraverso spunti in chiave semplificata (offerti da psicologi, campioni, campionesse, allenatori) quali inviti alla responsabilità personale e all’approccio critico sul proprio comportamento.

L’origine opposta

Disciplina e obbedienza possono confondere, perché sono considerate complementari all’educazione, al rispetto delle persone e delle regole e perciò al mantenimento dell’ordine, contribuendo a una società equilibrata e funzionante. Tuttavia i due comportamenti hanno origine opposta. L’obbedienza parte da un impulso esterno proveniente da un’autorità o presunta tale, rispettata per timore, persuasione o convinzione: un comportamento positivo se sostenuto da consapevolezza ma assolutamente negativo quando è cieco (Arendt docet). La disciplina si alimenta invece di un desiderio di miglioramento personale, in termini di efficienza o di adesione a un codice etico, attraverso l’interiorizzazione di regole. Se poi questa sia qualificabile come una virtù personale non sempre è parere condiviso, soprattutto per chi ama il mito “genio e sregolatezza”.

Sicuramente rappresenta un pregio in ambito sportivo, dove il lungo percorso per lo sviluppo del talento ha bisogno di una continuità di stimoli e una cura nei dettagli, impossibili o del tutto improbabili, senza un ordine interiore ed esteriore. Angela Duckwort, psicologa e autrice del libro Grit: The power of passion and perseverance afferma che «la vera eccellenza non deriva dall’obbedienza agli ordini ma dalla capacità di mantenere la disciplina personale nel lungo termine».

Gli abusi di Nassar

L’icona del tennis, Serena Williams, nel suo libro autobiografico ha detto: «La disciplina personale e il duro lavoro guidano il successo più dell’obbedienza alle aspettative degli altri». John Wooden, uno dei più grandi allenatori di basket universitario USA, dice: «La disciplina è il ponte tra obiettivi e risultati». E infinite sarebbero le testimonianze positive sul ruolo della disciplina nello sport. Le criticità nascono quando interseca il campo dell’obbedienza.

La ricercatrice dell’Inland Norway University of Applied Sciences, Ani Chroni, dottoressa conosciuta internazionalmente anche per i suoi contributi alla lotta alla violenza di genere nello sport, durante un’interessantissima lectio magistralis tenuta in Italia (in occasione dell’ultimo congresso dell’associazione italiana psicologia dello sport-AIPS) ha lanciato suggestioni su cui riflettere, circa l’obbedienza inconsapevole quale lato oscuro capace di trasformare la disciplina da potente strumento di crescita personale in un meccanismo di controllo.

Non ha dato risposte, non ce ne possono essere rispetto a quel confine tanto delicato quanto soggettivo. Tuttalpiù ci possono essere sentenze. Come quella contro l’osteopata della nazionale di ginnastica artistica statunitense, Larry Nassar, condannato a 175 anni di reclusione per aver abusato di un numero imprecisato di atlete di cui, 150 hanno trovato il coraggio di testimoniare: giovani donne ligie al dovere, estremamente disciplinate, succubi di una manipolazione esercitata da chi, in nome dell’autorità e della fiducia esercitata sulle sue vittime, chiedeva obbedienza cieca a comportamenti violenti.

I limiti

Da quel caso limite ne è discesa un’attenzione più precisa e generale verso i limiti che, invece, agli atleti viene chiesto di superare, alla relazione con chi glielo chiede e ai modi in cui lo fa. La riapertura, comunicata proprio in questi giorni, della vicenda sugli abusi e istigazioni al disturbo del comportamento alimentare, denunciati dalle ex azzurre della ginnastica ritmica, si pone proprio nel cono d’ombra, ancora più subdolo, dell’obbedienza a vessazioni e maltrattamenti impartiti come metodo ai fini della prestazione.

La connessione tra disciplina e obbedienza è il substrato fertile su cui sono fiorite, loro malgrado, le storie vincenti di molti campioni.

Fino a poco tempo fa la più nota era quella di André Agassi che, nel suo libro autobiografico Open, rivelò di aver odiato il tennis per gran parte della sua carriera, nonostante l’enorme successo. Al talento, spinto all’eccellenza dal padre a cui obbediva reagendo con disciplina e massimo impegno, si opponeva il desiderio di libertà, di ricerca della propria identità.

Copia incolla di quanto affermato di recente da Gianmarco Tamberi: in un'intervista a Belve su Rai 2 ha parlato del difficile rapporto con il padre, che lo ha persuaso a eccellere nel salto in alto, nonostante lui preferisse il basket. Ha obbedito con disciplina a quanto suggerito dal padre che, probabilmente e giustamente, gli avrà pronosticato come, saltando, sarebbe potuto arrivare ai massimi allori, mentre tirando a canestro no.

La felicità di essere liberi

Così è stato ma in questo profetica spinta ha dimenticato un dettaglio: la felicità. Al contrario, conferma positiva di tutto ciò è la parabola di Sinner: campione italiano di sci a 13 anni, abbandona tutto per andare a vivere a 700 chilometri di distanza dai genitori e giocare a tennis. I signori Sinner non hanno mai interferito, sostenendo la sua libertà di scelta nel seguire passione e felicità.

Atleti di successo come esempi a testimonianza di molti altri e molte altre persone che hanno vissuto, in negativo, il disagio di inseguire un sogno per procura. O al contrario, hanno raggiunto il successo esprimendo insieme al talento il loro sé più autentico. Oppure ancora, hanno lasciato tutto quello che poteva portarli ad affermarsi secondo criteri socialmente riconosciuti, per essere “semplicemente e felicemente” gli originali interpreti della propria vita”.

È un dubbio esistenziale che accompagna le scelte di ognuno capire cosa realmente si vuole, scoprire i propri desideri e poi trovare la capacità e la forza di soddisfarli.

Chi, almeno una volta nella vita, non si è chiesto se la strada intrapresa era frutto di una scelta autentica oppure inquinata dal senso del dovere nell’accontentare speranze altrui o attese di conformità?

Un aspetto delicato, ancora più complesso per giovani atleti e atlete, troppo spesso disallineati tra maturità personale e agonistica dalla specializzazione precoce, frequentemente sradicati dalla famiglia per vivere in ambienti in cui la performance rischia di prevalere sulla persona. Contesti critici e insidiosi in cui solo una grande consapevolezza di tutti gli attori coinvolti, può aiutare a muoversi, senza rischi, lungo le scivolose sovrapposizioni tra disciplina e obbedienza.

Semmai arriverà un momento in cui ci sarà coscienza di questa necessità e sarà al centro degli sforzi delle politiche sportive, ecco quel giorno unirà idealmente, almeno in parte, il 25 novembre e il 25 aprile in unica celebrazione del rispetto e della liberazione.

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