Dal 2021 c’è un’inversione di tendenza rispetto al trend storico in diminuzione. Le campagne istituzionali sono assenti e si teme la mancanza di finanziamenti per la prevenzione e la cura. I media non informano correttamente, la politica è immobile. Episodi di stigma che ricordano gli anni Ottanta e un’errata percezione del rischio, nonostante la scienza sia approdata a una delle più rivoluzionarie scoperte
Seduto nella sala d’aspetto di un ambulatorio lombardo, sulle sedie colorate, c’è un uomo che deve sottoporsi a un intervento di cataratta. Con lui, in attesa, altri pazienti. Dalla sala operatoria fa capolino il medico che davanti a tutti comunica: «Lei è positivo al virus dell’Hiv quindi entrerà per ultimo».
In un ospedale della Toscana ai piedi del letto di un ragazzo e sul vassoio del pasto, gli infermieri attaccano una scritta: “Paziente con Hiv, fare attenzione, usare protezioni”. Ancora in Lombardia a una donna viene negata dal centro trasfusionale di un ospedale la possibilità di donare sangue: è parente di una persona con Hiv. Storie che non arrivano dal 1985 ma dall’Italia del 2024 travolta da un’onda di ritorno al passato che attraversa ospedali, media e politica.
Lo denuncia la Lila, la Lega italiana per la lotta contro l’Aids. In Italia torna lo stigma verso le persone sieropositive, quello degli anni Ottanta, della pubblicità progresso con l’alone viola minaccioso e ansiogeno che suggeriva: “Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”. Le campagne di informazione istituzionali sono assenti, i media continuano a fare confusione tra Hiv e Aids (tra sieropositività e malattia) e la politica immobile assiste oziosa agli ultimi dati del ministero della Salute che evidenziano come la prevenzione si sta fermando.
Sono in aumento i contagi. C’era stata una costante discesa iniziata dal 2012 poi dal 2021 l’aumento. Se gli incrementi del 2021 e 2022 potevano essere attribuibili a un recupero dei test non eseguiti negli anni del Covid, «l’incremento dell’ultimo anno – spiega il Centro operativo Aids (CoA) – sembra confermare un’inversione di tendenza rispetto al trend storico in diminuzione».
È come far fare marcia indietro al tempo: quest’anno ben il 60 per cento di chi ha scoperto di avere l’Hiv, presentava meno di 350 linfociti CD4 per u/l e, dunque, era già in Aids o alle soglie di questa grave condizione patologica. Sono late presenter, cioè persone che scoprono di aver contratto l’Hiv tardi, quando il loro sistema immunitario è già compromesso e mostrano i sintomi.
Una cosa inconcepibile, soprattutto adesso che la scienza è approdata a una delle più rivoluzionarie scoperte: U=U, simbolo che sta per Undetectable = Untransmittable (Non Rilevabile è uguale a Non Trasmissibile), le persone che vivono con l’Hiv e hanno raggiunto una carica virale non rilevabile, grazie a una terapia antiretrovirale efficace, non possono trasmettere il virus, nemmeno attraverso rapporti sessuali non protetti.
«È come se tutto il lavoro degli ultimi anni si fosse inceppato», ripetono da Lila. Si è inceppato, sembra quasi che giri alla rovescia: «C’è un’errata percezione del rischio», spiega a Domani la Presidente Giusi Giupponi. «Le persone non lo percepiscono. Dovuto anche a un’assenza di comunicazione dei media. Molti pensano di essere assolutamente sani ma l’Hiv non è visibile a occhio nudo. È importante testarsi, restare vigili».
Fino a oggi le associazioni che si occupano di contrastare il fenomeno hanno avuto un ottimo rapporto con il ministero della Salute ma confessa Giupponi: «Non sappiamo cosa succederà in un prossimo futuro. La preoccupazione è che non ci sia la possibilità di avere finanziamenti per continuare il lavoro di prevenzione fondamentale ma anche di cura. Gli episodi di stigma e discriminazione ci dicono che stiamo precipitando indietro di 40 anni. Da quanto non c’è una campagna istituzionale sull’Hiv in questo paese? Tutti si ricordano quella dell’alone viola degli anni 90. L’ultima è fatta dalla community su U=U».
Dal punto di vista legislativo ci sarebbe la proposta di legge presentata il 13 ottobre 2022 dal deputato di Forza Italia Mauro D’Attis, in sintonia con associazioni del settore, per riformare la legge 135 del 1990. Attualmente è impantanata in Commissione Affari Sociali: «Per una questione economica. Noi chiediamo di abbassare l’età in cui fare un test vorremmo portare il test a 14 anni. Portare dei fondi al terzo settore. E ancora Prep e prevenzione nelle scuole».
Ma proprio sulla prevenzione delle scuole il governo ha dimostrato più volte di essere di un’altra opinione. «Troppo presto per parlare di queste cose», è sempre stata la linea della presidente Giorgia Meloni. In Italia i corsi di educazione alla sessualità esistono già, come EduforIST, un progetto coordinato dall’Università di Pisa e finanziato dal ministero della Salute nel 2019. Ma sono a scadenza: «Il nostro è un gruppo costituito da università con competenze sanitarie e pedagogiche, altre realtà del settore ed enti pubblici, come Asl e Istituto superiore di sanità su diverse regioni: Friuli, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio, Puglia, Campania», racconta a Domani Lara Tavoschi, professoressa di salute pubblica dell’Ateneo pisano.
EduforIST entra nelle scuole e tratta di educazione sessuale estensiva, cioè include più ambiti: non solo sanitario, ma emozionale, la questione del consenso, la conoscenza dei diritti e il rispetto di sé. Un progetto extra curriculare che guarda non solo alle scuole superiori ma anche alle medie: «Il debutto sessuale in Italia ci porta a spostare l’attività di educazione nei ragazzi più giovani, cioè le terze medie». Il progetto terminerà a giugno.
La linea di questo governo suggerisce un mancato rinnovo: «Eppure le evidenze che abbiamo da attività di sorveglianza di popolazione in Italia mostrano come la richiesta dei ragazzi sia di educazione sessuale e affettiva all’interno del contesto scolastico. Non sappiamo cosa succederà al progetto, ma per continuare ci siamo rivolte a call europee».
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