Nel giorno in cui si ricordano i morti della pandemia echeggiano le parole pronunciate dai personaggi chiamati in audizione dall’organismo parlamentare voluto da Fratelli d’Italia e Lega: tra medici anti vaccini e chi crede che le bare di Bergamo siano state parte di un complotto. Intanto il sistema sanitario nazionale cade a pezzi
Diciotto marzo 2020. Una data scolpita nel marmo. Quello delle decine di lapidi che giacciono lungo i viali del cimitero monumentale di Bergamo. Questa data, da quattro anni, è la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, ma soprattutto il 18 marzo del 2020 è lo spartiacque nella memoria di tutti i bergamaschi. Poco dopo le dieci di sera, una fila di camion militari avanza lentamente in via Borgo Palazzo, a due passi dal principale campo santo della città. Nessuno li può seguire in processione, ricacciato in casa dalle leggi dello Stato. Solo chi abita in quella via, affacciandosi alla finestra, può salutare quelle anime e immortalare la scena.
Una fotografia sfuocata - scattata con il cellulare da Emanuele, un ragazzo napoletano di 28 anni, steward di Ryanair - fa il giro del mondo e diventa l’emblema della crudele ecatombe di Bergamo. Otto mezzi dell’esercito si portano via 73 corpi, che non possono più essere smaltiti: madri, padri, nonni, fratelli e figli morti in ospedale o in un ospizio, senza la carezza di un familiare, in casa, senza assistenza, soffocati, senza ossigeno.
Corpi da cremare, lontano dagli affetti. Una comunità saccheggiata dal rito più sacro, quello dell’esequie. Le bare quel giorno vengono scortate fuori regione, in Emilia-Romagna, in Lombardia. Sarà il primo viaggio di una lunga serie. I defunti ritorneranno a casa dentro alle urne. Urne cinerarie, messe lì davanti ai nostri occhi a raccontarci una strage silenziosa. Urne piene, piazze vuote.
La commissione dei no vax
Nella bergamasca in quaranta giorni - tra febbraio e marzo 2020 - muoiono oltre seimila persone a causa del covid. Eppure, non c’è limite alla vergogna. Lo scorso 19 novembre sul banco degli auditi, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria Covid-19, è salito il segretario di uno sconosciuto sindacato di polizia, la sigla è Osa, il rappresentante si chiama Antonio Porto. Ha prodotto un lungo elenco di denunce presentate in diverse procure per non meglio precisati abusi di potere durante la pandemia. Poi il gran finale dal sapore complottista: «Le bare di Bergamo ci hanno posto una domanda: perché una bara a camion, quando potevano andarcene due o tre? Cosa voleva portare alla popolazione quell’immagine? Ci siamo resi conti che qualcosa non stava andando bene».
Per queste frasi il Comune di Bergamo ha sporto denuncia-querela contro Antonio Porto per falsa testimonianza, fornendo prove documentali, che includono decreti di autorizzazione al trasporto, fotografie e testimonianze di funzionari comunali presenti, che dimostrano l’esistenza di un numero significativamente maggiore di bare per camion. «Le dichiarazioni rese da Antonio Porto in data 19.11.2024 innanzi alla citata Commissione parlamentare di inchiesta si appalesano false e mendaci – si legge in un passaggio della denuncia - e tese tra l’altro a sostenere, altrettanto falsamente, che le operazioni di trasporto a mezzo dei camion militari sarebbero servite per indurre la popolazione a prestarsi alla inoculazione del vaccino contro il Covid-19, oltre che per soggiogare la popolazione al lockdown».
Ricordiamo che la suddetta Commissione parlamentare è presieduta dal deputato Marco Lisei, meloniano di ferro, che nel 2021 scriveva sui social: «Aveva 18 anni ed è morta dopo il vaccino Astrazeneca. Nel frattempo quell’inetto di Speranza ha cambiato idea in continuazione su Astrazeneca. Qualcuno si assumerà la responsabilità di questa morte?».
La grazia ai no vax, multati per aver boicottato la vaccinazione, è di certo una misura approvata da questa maggioranza cha va nella direzione della resa dei conti con il passato. Il senso del provvedimento, approvato nel milleproroghe, è inequivocabile: riconoscere a quel mondo, oppositore delle misure restrittive durante la pandemia e bacino elettorale dell’estrema destra, un premio per il sostegno. «Noi manteniamo le promesse», è il claim apparso sui profili social di molti esponenti di Fratelli d’Italia il giorno in cui è stata istituita la commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia. Un organismo che per come è stato pensato è il definitivo inchino alle truppe no vax. Soprattutto perché non ha in programma di occuparsi dell’operato delle regioni, e quindi, nemmeno delle mancate zone rosse di regione Lombardia, per esempio, amministrata oggi come allora dalla Lega.
L’imparzialità, dunque, non appartiene allo stile del presidente della commissione, che ha due obiettivi chiari: manganellare politicamente l’ex premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute del tempo, Roberto Speranza; fornire un palcoscenico a voci fuori dal coro, noti nemici del vaccino, artisti del complotto, sconosciuti rappresentanti sindacali dall’italiano incerto. Le prime nomine dei consulenti e le audizioni finora svolte confermano tale tendenza.
Tra gli esperti sentiti troviamo Alberto Donzelli, specialista in Igiene e medicina preventiva, ma prima di tutto re degli scettici sui vaccini. Un medico, questo è sicuro, fuori dal mainstream: «Dati di studi di disegno valido suggeriscono addirittura, ad esempio, che il bambino vaccinato possa aumentare il rischio di sindromi influenzali in famiglia, anziché ridurlo».
È l’analisi pubblicata sul suo sito scritta assieme a Eugenio Serravalle, pediatra, pure lui convocato in commissione, dove ha snocciolato dati sui danni del lockdown su bambini e adolescenti (chi l’avrebbe mai detto che restare chiusi in casa per mesi possa danneggiare la psiche di un giovane individuo!). Il punto sarebbe capire come si è arrivati a quel lockdown totale e tardivo. Altro luminare venerato da Lisei e colleghi è Giovanni Frajese, endocrinologo sospeso dall’ordine dei medici nel 2022 per le sue posizioni no vax e reintegrato una volta conclusa la pandemia. Il suo pensiero: «Donne incinta usate come cavie» per i vaccini; ospedali che durante i momenti peggiori del contagio «hanno festeggiato con tutta questa storia perché lavoravano il meno possibile, perché il Covid ha intasato tutto, i vari reparti erano bloccati». Ecco perché è lecito pensare che questa commissione parlamentare, più che analizzare le cause che hanno determinato questa scia di morte, sembra intenzionata a bastonare solo l’avversario politico.
Sistema sanitario a pezzi
La realtà, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti: la desertificazione della medicina territoriale, le inaccettabili diseguaglianze sanitarie regionali, la crisi motivazionale del personale medico e infermieristico, il boom della spesa sanitaria “out of pocket”, ovvero a carico delle famiglie e quasi 4 milioni e mezzo di persone che nel 2023 hanno rinunciato alle cure, sono evidenze che richiederebbero uno sforzo politico condiviso, investimenti di miliardi di euro e una visione lungimirante di che paese vogliamo lasciare ai nostri figli. Partendo proprio dalle falle del sistema e dai dati, «che dimostrano che oggi la vera emergenza del paese è il Servizio Sanitario Nazionale», come sottolinea da anni Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, instancabile difensore del diritto alla salute garantito, almeno sulla carta, dalla nostra Costituzione.
Ma torniamo al 18 marzo 2020. Questa data segna un prima e un dopo. Suscita panico e sgomento nell’opinione pubblica, soprattutto fuori dalla Lombardia, la regione più colpita dal contagio, la più popolosa d’Italia, polmone industriale del nostro paese, dove fino al 22 marzo 2020 le fabbriche restano aperte. È infatti solo con il decreto ministeriale (Dpcm) “Chiudi Italia” - annunciato dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, quattro giorni dopo la sfilata dei camion militari a Bergamo - che verranno bloccate le attività non essenziali, molte delle quali, tuttavia, continueranno ad operare grazie alle deroghe prefettizie, che con il meccanismo del silenzio-assenso non si fermeranno mai, agganciandosi, in qualità di fornitori con una semplice auto-certificazione, alle attività essenziali incluse nell’elenco dei codici Ateco, per le quali non è prevista la sospensione durante l’emergenza Covid-19.
Ecco perché in Lombardia, di fatto, la fase uno non è mai esistita. Dopo la creazione della zona arancione a livello regionale l’8 marzo e poi con il lockdown nazionale, annunciato il giorno dopo (che chiude solo gli esercizi commerciali), a Bergamo ci sono 84 mila aziende aperte, per un totale di 385mila lavoratori autorizzati a muoversi. Dopo il Dpcm “Chiudi Italia” del 22 marzo, nell’area più colpita dall’epidemia - in Val Seriana laddove si muore di più - oltre 13mila lavoratori possono continuare a circolare liberamente (dati Istat e Fondazione Claudio Sabattini).
Le mancate chiusure
Le fotografie, dunque, sono due: quella dei carri militari e quella di milioni di lavoratori, che in Lombardia hanno continuato a uscire di casa, rischiando la vita. Sono coloro che non potevano mettersi in smart working o che - almeno fino al 23 marzo, data dell’entrata in vigore del lockdown totale - erano costretti a recarsi sul posto di lavoro, perché non avevano scelta e soprattutto perché nessuno aveva vietato, per decreto, che ciò accadesse.
Bergamo è la zona d’Italia con la più alta densità operaia, dovuta alla più alta concentrazione di fabbriche: 4,1 imprese per chilometro quadrato, contro l’1,6 della media nazionale. A Bergamo c’è un’impresa ogni nove abitanti. La Val Seriana è la culla industriale lombarda, il cuore produttivo della provincia di Bergamo. Un cuore, che non ha mai smesso di pulsare nemmeno durante il lockdown.
«In Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna abbiamo calcolato che in piena fase uno circa tre milioni e mezzo di persone sono state chiamate al lavoro, di cui circa 300 mila solo nella provincia di Bergamo: si può parlare di lockdown a fronte di cifre così consistenti?, è questa la domanda che si è posto nel 2020 Matteo Gaddi, ricercatore della Fondazione Claudio Sabattini, autore dell’indagine sulla mobilità lavorativa nella prima fase pandemica.
Riecheggia, a questo punto, la frase che mi ha consegnato in piena pandemia il capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti: «In Lombardia non si potevano fare zone rosse, non si poteva fermare la produzione».
Già, in Lombardia si poteva solo crepare.
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