Ci sono i colleghi dell’università, i ragazzi e le ragazze dei licei e delle scuole, e anche gli amici di Filippo e di suo fratello, con i bomber neri e le facce spaesate. Le parole del padre: «Basta violenza, parliamo ai maschi che conosciamo»
Sul Prato della Valle, davanti alla basilica di Santa Giustina a Padova, nella sterminata ellissi seconda solo alla piazza Rossa di Mosca, l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa a 22 anni dall’ex fidanzato, prende subito la forma di un funerale di stato. Non perché ci sono le dirette tv a reti unificate, su Rai 1 e Canale 5. Non per la solennità della funzione, celebra il vescovo Claudio Cipolla e concelebrano una trentina tra preti e abati e monaci, e una quindicina diaconi si sparpaglieranno a distribuire l’eucarestia nel Prato.
Non per la valanga dei cronisti, e neanche per l’organizzazione discreta e perfetta che ha imbastito la diocesi, con gli alpini, le associazioni di carabinieri e polizia, degli scout, le ragazze del Valsugana rugby e i ragazzi del Excelsior rugby. Né tanto meno per le corone del Quirinale, della Camera e del Senato e di palazzo Chigi che aspettano il feretro, che arriva alle 11 di mattina.
Qui lo stato sono le diecimila persone arrivate nonostante il freddo che spezza le mani, una moltitudine di ragazzi e ragazze allacciati e abbracciati a gruppi e gruppetti, vengono da Vigonovo, il paese di Giulia, dai paesi vicini, dalle città venete, e da qui, dall’università che frequentava lei: la rettrice Daniela Mapelli ieri mattina l’ha chiusa per lutto, a giorni consegnerà alla famiglia la laurea che la ragazza stava per ottenere e che il suo ex fidanzato e carnefice Filippo Turetta non tollerava prendesse prima di lui. Il caso qui si chiama segno, nella basilica è custodito il corpo della prima laureata al mondo, una filosofa del Seicento, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia.
Ci sono i colleghi e le colleghe del corso di Ingegneria biomedica, la nostra meglio gioventù presa un momento prima di partire per l’estero a cercare lavoro. Ci sono i ragazzi dei licei e delle scuole, i compagni del fratellino di Giulia, Davide, diciassettenne, fin qui tenuto al riparo dai riflettori. Ci sono anche gli amici di Filippo, e del fratello di Filippo, tutti con bomberino e facce spaesate, non regge il cuore a chiedere cosa vivono, cosa pensano, cosa sanno. Tutti e tutte hanno gli occhi rossi, senza complessi “anche” i ragazzi e gli uomini piangono. Del resto la cerimonia piega tutti, tutti e tutte siamo madri padri zie amici amiche di una ragazza come Giulia, nemmeno i cronisti reggono l’emozione, persino gli operatori tv, quelli più ruvidi che ogni giorno vedono cose che noi umani, stavolta scostano la camera dall’occhio, imprecando.
Il padre parla agli uomini
Sono funerali di stato senza decreto, anche se dentro la basilica le autorità nazionali scarseggiano: non c’è la premier Meloni, data in arrivo da boatos locali; in sua vece al primo banco c’è il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ma lo si scopre dalla diretta tv, è entrato da una porta laterale, stringe la mano al papà di Giulia quando il vescovo ordina di scambiarsi un segno di pace.
C’è il presidente della regione Luca Zaia, il sindaco Sergio Giordani, una schiera di primi cittadini con fascia tricolore, vengono dal Veneto e dal Friuli, c’è qualche deputato di zona seduto con discrezione fra i banchi, i democratici Alessandro Zan e Andrea Martella, l’Udc Antonio De Poli. La basilica è piena, la stampa resta fuori, la famiglia ha voluto accanto 400 persone ma tutti parenti, affetti e amici, ci sono i compagni di classe di Davide, quelli della 4C del Fermi, i suoi prof.
Sono funerali di stato perché la solennità di questo momento la decide Gino, il padre di Giulia – Giulia la sua «combattente», l’«oplita», dice con infinita dolcezza – con una forza di origine inconoscibile, quando trasforma il lutto che si è abbattuto sulla sua famiglia, «la tempesta di dolore che sembra non finire mai» – ha perso la moglie per malattia e ora la figlia, con questa ferocia, nel giro di un solo anno – in una liturgia della promessa per il paese, quella di un impegno civile contro la violenza degli uomini sulle donne. «Una presa di consapevolezza collettiva» traducono le ragazze di Non una di meno, anche loro sparse fra la folla, presenti, militanti ma senza insegne, sparse nell’enorme sagrato davanti ai due maxischermi.
Gino Cecchettin chiede che l’onda di emozione che ha investito il paese sia «una spinta per il cambiamento», «la vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne». Elenca cosa serve, evita con saggezza sovrumana parole che rimandino alle polemiche politiche – però parla di «patriarcato», come ha fatto sua figlia Elena – ma è precisissimo: l’attenzione delle famiglie, l’educazione nelle scuole, la responsabilità dei media; si appella alle istituzioni perché, messe da parte «le differenze ideologiche», affrontino «unitariamente il flagello della violenza di genere». E alla fine si rivolge agli uomini, con una richiesta potente di autocoscienza: «Noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali».
Al ritrovamento del corpo di Giulia, era stata Elena a scuotere il paese, a infiammare la piazza del 25 novembre con il suo «ma quale silenzio, fate rumore, bruciate tutto», nominando a muso duro il «patriarcato» e «il vostro bravo ragazzo» che le ha ucciso la sorella. Ieri al funerale è stato il padre a portare a termine lo stesso discorso: si è rivolto a tutti e tutte, ma soprattutto ai maschi, padri, fratelli, amici e “bravi ragazzi”. (più tardi il ministro dell’Istruzione Valditara ha raccolto la proposta del governatore Zaia: Gino sarà invitato a parlare nelle scuole).
Il rumore verso il cielo
Dal Prato gli ha risposto un rumore fortissimo, migliaia di mazzi di chiavi tintinnanti, un boato. Non è una manifestazione politica, ma sì che è una manifestazione. E il simbolo del movimento non è un segno né un gesto, non ha un connotato di parte, è questo baccano di chiavi: perché è il contrario del silenzio di chi non denuncia, e perché una donna – ogni donna, giovane o vecchia, bella o brutta, apprensiva o spavaldissima – tiene proprio quelle chiavi in mano quando la sera torna a casa, in modalità allerta, nell’altra mano il cellulare per chiamare aiuto.
Prima del rumore c’era stato un lunghissimo applauso alla bara bianca di Giulia. Alla sua gigantografia sorridente, a lei e a ogni ragazza libera. Poi un altro applauso, ancora più forte, quando dall’interno della chiesa sono emersi Gino, che ha ringraziato tutti a mani giunte, con i suoi due figli addosso.
I tre sono partiti verso la seconda cerimonia, più privata, a Saonara, paese accanto al loro Vigonovo, alle due del pomeriggio. Alle tre, dall’altra parte del paese, ad Andria, in Puglia, un altro funerale, un altro femminicidio. Perché dopo Giulia sono state uccise altre tre donne, per mano dei loro mariti: Rita Talamelli a Fano, Meena Kumari a Salsomaggiore, e lei, Vincenza Angrisano ad Andria.
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