Il racconto di Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto della macchina che trasportava il giudice quel 23 maggio 1992: «Quando mi risvegliai in ospedale, c'era Paolo Borsellino. Ma la mia strage è iniziata dopo l'attentato: in tribunale mi facevano fare il tappabuchi. E non sono mai stato invitato alle cerimonie per gli anniversari. A volte ho pensato che in questo paese è una disgrazia se rimani vivo. Il dottore e la moglie, Francesca Morvillo, oltre a professionisti straordinari, erano bellissime persone normali»
Giuseppe Costanza è stato per anni l’autista di Giovanni Falcone. È l’unico sopravvissuto all’interno dell’auto guidata dal giudice, quel pomeriggio del 23 maggio 1992 all’altezza di Capaci. A salvarlo, una serie di casualità, che fecero in modo che l’esplosione innescata da Giovanni Brusca non prendesse in pieno l’intero convoglio (di tre auto). Oggi ha 75 anni, ma non ha ancora una spiegazione a quella che definisce una «seconda strage», quella che – da sopravvissuto – lo ha visto ai margini del tribunale per cui lavorava. E totalmente in ombra nelle commemorazioni della strage di Capaci. Ecco la sua testimonianza, in occasione del trentennale della morte di Falcone, della moglie Francesca Morvillo, e dei tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Quando Giovanni Falcone mi chiamò nel suo ufficio era il 1984. Lavoravo all'accoglienza dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, lui mi aveva osservato per un po' di tempo e quel giorno mi chiese: «Vuoi essere il mio autista?». Dissì di sì.
Fino a quel momento la mafia vera non sapevo nemmeno cosa fosse: la vivevo come un cittadino qualunque, ero convinto che portasse dei panni più grezzi rispetto a quelli che il giudice ha mostrato. «Menti raffinatissime», come le chiamava lui. Da quando sono salito su quell'auto, invece, ho capito cos'era. Le sentivo le voci della gente, quando passavamo a sirene spiegate, che dicevano: «Ma non li possono fare vivere tutti in una caserma questi giudici?». Ma sapevo che stavamo facendo il nostro dovere.
Quel 23 maggio 1992, alle 7 del mattino, Falcone mi chiamò - come sempre, quando doveva organizzare i suoi spostamenti - per dirmi che sarebbe atterrato da Roma all'aeroporto di Palermo alle 17.45. Avvisai anche gli uomini della scorta. A quell’ora, eravamo tutti lì.
Il dottor Falcone e la moglie scesero dall'aereo e vennero verso di me, ma mi fecero spostare dal mio consueto posto di guida. La dottoressa Morvillo soffriva il mal d'auto e quel giorno si mise sul sedile anteriore dell'auto. Falcone, che voleva starle accanto, decise di guidare per sedere vicino a lei. Io mi accomodai dietro.
Eravamo quasi arrivati allo svincolo per Capaci. La macchina civetta e quelle della scorta erano davanti a noi. Quando a un certo punto successe un'altra cosa insolita. Il dottore mi informò che non si sarebbe fermato a casa, per via di un altro incontro di lavoro subito dopo, e che avrei quindi potuto riprendermi l'auto.
Così mentre era alla guida sull'autostrada, estrasse le chiavi dal quadrante e fece per passarmele dietro. «Le tenga», disse. La macchina rallentò di molto, pur rimanendo in corsa (era stato un gesto di scatto, inconsueto) e io sorpreso dissi ad alta voce: «Ma che fa dottore? Così ci andiamo a schiantare». Fu in quel momento che avvenne lo scoppio.
La macchina, che per quel gesto aveva perso velocità, si scontrò con meno forza verso il muro dei detriti che nel mentre si era alzato. Fu per questo, e per la mia posizione in auto, che riuscì a salvarmi. Fui l'unico. Da quell'attimo in poi non ho ricordi, fino a quando non riaprii gli occhi in ospedale.
Lì venne a trovarmi il giudice Paolo Borsellino, fu l'unico magistrato a venire. Chiese alla sua scorta di lasciarci soli nella stanza e parlammo. Era un uomo a cui avevano portato via un amico e un compagno dello stesso viaggio. Appena due mesi dopo sarei stato io, in una calda domenica di luglio, a correre verso via D'Amelio e a cercare tracce di lui e del suo enorme coraggio.
La mia vita è cambiata. Ma è dopo l'attentato che è iniziata la mia strage. Dopo 18 mesi di malattia, sono tornato in tribunale e mi aspettavo un'accoglienza diversa. Invece, non riuscivano a trovarmi un posto, una mansione. Mi facevano fare il tappabuchi, a volte ho pensato che in questo paese è una disgrazia se rimani vivo.
E in più, per 23 anni non ho ricevuto nessun invito alle commemorazioni di Capaci. Anche quest'anno (quest'intervista è stata raccolta il 13 maggio, ndr) non ho ricevuto nessuna convocazione per il trentennale. Eppure, io sono l'unico sopravvissuto su quell’auto. Ti chiedi, ti richiedi perché. Alla fine, dopo trent’anni, l'unica spiegazione che ti dai è che devi trovare dentro di te il senso e la voglia di dare una continuità a quell'esempio.
Del dottor Falcone, il ricordo più dolce che ho sono le mattine a casa sua. Di solito un autista non entra in casa, ma il giudice aveva fatto delle "indagini" su di me e aveva scoperto che nella mia vita precedente - prima di lavorare in tribunale - ero un parrucchiere. Siccome per lui era troppo pericoloso uscire per farsi barba e capelli, aveva chiesto a me. Lo feci per otto anni. Quando suonavo il campanello, comparivano lui e la moglie in vestaglia. Poi la dottoressa Morvillo scompariva e si ripresentava due minuti dopo dicendo: «Ecco il caffè». Erano questi. Persone normali.
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