- La storia di Rocco Barbaro è semplice e nel contempo esagerata.
- Quello che veniva indicato da una quantità di rapporti investigativi come il numero uno della ’Ndrangheta in Lombardia, finito nella lista del Viminale come «uno dei 30 latitanti più pericolosi», non solo è tornato libero a casa sua fra le creste delle montagne calabresi ma una sentenza dice pure che non è mafioso.
- È sconcertante la distanza fra le risultanze investigative e l’ultimo verdetto della Cassazione
Come si fa a passare da capo dei capi della ’Ndrangheta a cittadino senza una macchia mafiosa, come un boss braccato in ogni anfratto dell’Aspromonte si può trasformare in un tranquillo e indisturbato abitante della Locride?
La giustizia italiana ha qualcosa di stupefacente, ci sono vicende indecifrabili, che provocano inquietudine proprio perché enigmatiche, comprensibili esclusivamente agli specialisti dei tortuosi percorsi della legge.
La storia di Rocco Barbaro è semplice e nel contempo esagerata. Quello che veniva indicato da una quantità di rapporti investigativi come il numero uno della ’Ndrangheta in Lombardia, finito nella lista del Viminale come «uno dei 30 latitanti più pericolosi», non solo è tornato libero a casa sua fra le creste delle montagne calabresi ma una sentenza dice pure che non è mafioso. Almeno a Milano, dove si era comodamente sistemato dopo avere avviato un famoso bar a due passi dal Duomo.
Ora, non per dividere il mondo in due o per rappresentare sommariamente un caso probabilmente assai più complicato, ma che diavolo di giustizia è quella che un giorno ci presenta un signore come l’esponente più feroce di una cosca, dedita prima ai sequestri di persona e poi al traffico internazionale degli stupefacenti, e che il giorno dopo ci assicura che quel signore è un innocuo commerciante che al massimo ha fatto il gioco delle tre carte per intestare il suo bar a un prestanome?
Indagini e verdetto
È sconcertante la distanza fra le risultanze investigative e l’ultimo verdetto della Cassazione, fra il gran clamore sollevato intorno alla sua figura dall’inchiesta dei pubblici ministeri milanesi e la seraficità dei giudici di Cassazione che gli hanno riaperto le porte della sua abitazione.
Alla base di questa plateale discordanza ci sarà sicuramente una dotta interpretazione tecnico-giuridica, gli avvocati di Rocco Barbaro avranno svolto magnificamente il loro lavoro, i cavilli avranno certamente preso il sopravvento sulle pur scrupolose indagini, ma per favore qualcuno dovrebbe spiegarci (in italiano possibilmente) come ancora oggi può accadere tutto questo.
Altrimenti è farsa, la lotta giudiziaria alla mafia è fiction, è solo lo stato che combatte contro sé stesso lasciando fuori dalla partita la materia del contendere: la ’Ndrangheta o le altre mafie.
Soffiate e fughe
Torniamo a Rocco Barbaro per raccontare chi è. Cinquantasei anni, figlio di famiglia, suo padre Francesco è il discendente di una dinastia di ’Ndrangheta che ha segnato i destini criminali dell’Aspromonte. Gli hanno affibbiato il soprannome “U’ Sparuto”, lo scomparso”, per essere sfuggito alla cattura – dicono per una soffiata – dopo una condanna per associazione mafiosa.
Il personaggio diventa importante in un periodo molto particolare per la ’Ndrangheta acquartierata in Lombardia, le cosche sono in fibrillazione, regolamenti di conti interni, muore ammazzato Carmelo Novella che è il referente in quella regione dei boss della Locride e che sta portando avanti un progetto “secessionista”, si vuole staccare dalla casa madre. Operazione spericolata che si concluderà con la sua uccisione.
Un’inchiesta fra Reggio Calabria e Milano svela che c’è un nuovo leader, dalle intercettazioni ambientali si scopre che parlano proprio di Barbaro: «Questo qua è il capo di tutti i capi. Per regola, è capo di tutti i capi, di quelli che fanno parte di queste parti». Fra la Calabria e la Lombardia ci sono 300 arresti, Barbaro non si trova, è latitante.
Chi è davvero?
Lo prendono soltanto nel 2017, a Platì, a casa di una delle figlie. I carabinieri dedicano l’evento alla memoria del brigadiere Antonino Marino, ucciso a Bovalino nel 1990 proprio per volere di Francesco Barbaro, il padre dello “Sparuto”.
Titoloni sui giornali, la belva mafiosa è in trappola. Poi il dibattimento. In primo grado condannato a 16 anni, in appello a 13, poi ancora la Cassazione che rimanda ai giudici di secondo grado il processo. Alla fine la suprema corte fa cadere l’associazione mafiosa per quello che era stato spacciato come “il capo dei capi”. La motivazione: per considerarlo mafioso bisogna dimostrare il suo inserimento nella cosca al nord.
Perché non «è mai sufficiente la verifica di una generica e non storicizzata appartenenza» al clan, ma «è necessario che la stessa trovi specifico riscontro operativo riguardo a un determinato assetto organizzativo e a quel determinato periodo». Tutto molto giuridicamente corretto. Ma, per favore, qualcuno ci faccia capire chi è davvero Rocco Barbaro.
© Riproduzione riservata