La decisione che ha assolto Francesco Acerbi dall’accusa di un insulto razzista a Juan Jesus presenta alcune singolarità. Il giudice ha disatteso un principio consolidato nel procedimento sportivo, in base a cui basta «un ragionevole affidamento in ordine alla commissione dell’illecito» per arrivare alla condanna. Se la polvere di fastidiose accuse di razzismo viene messa sotto il tappeto, così che non si veda, può continuare a fingersi che il problema non esista
Francesco Acerbi, il calciatore italiano dell’Inter, ha rivolto o no un insulto razzista contro Juan Jesus, il giocatore brasiliano del Napoli, durante la partita Inter-Napoli dello scorso 17 marzo? Il giudice sportivo ha assolto Acerbi, non avendo raggiunto «il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto sicuramente discriminatorio dell'offesa recata».
La decisione presenta alcune singolarità che vanno valutate sulla base delle regole e dei principi del diritto dello sport.
I fatti
Durante la partita, Juan Jesus si era rivolto all’arbitro lamentando «espressioni offensive di discriminazione razziale» da parte di Acerbi. Il gioco era stato interrotto, «al fine di consentire un chiarimento tra i calciatori», e poi ripreso senza che Jesus – sottolinea il giudice – avesse espresso «alcun dissenso» circa la prosecuzione della partita.
Nei giorni successivi, il giocatore dell’Inter era tornato sulla vicenda, negando di aver rivolto un insulto razzista al calciatore brasiliano, il quale a quel punto aveva reagito, affermando che invece l’offesa ricevuta poteva essere qualificata proprio come tale. La procura della Federazione italiana (Figc) aveva quindi aperto un’indagine.
L’episodio è rilevante ai sensi dell’art. 28 del codice di giustizia sportiva, relativo ai «comportamenti discriminatori». «Ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporta offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine anche etnica, condizione personale o sociale» è sanzionata con «la squalifica per almeno dieci giornate di gara o, nei casi più gravi, con una squalifica a tempo determinato» e altro.
Lo standard probatorio nel giudizio sportivo
Il livello di certezza probatoria necessario per ritenere un soggetto colpevole in un giudizio sportivo è diverso da quello richiesto in un giudizio penale. In quest’ultimo ambito vige la presunzione di non colpevolezza, per cui «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533 c.p.p.). Invece, per arrivare alla condanna nel procedimento disciplinare sportivo non serve la «certezza assoluta della commissione dell’illecito» (Collegio di Garanzia dello Sport del CONI, Sezioni Unite, n. 34/16).
È sufficiente un livello di prova «superiore alla semplice valutazione della probabilità, ma inferiore all'esclusione di ogni ragionevole dubbio». Dunque, basta «un ragionevole affidamento in ordine alla commissione dell’illecito» (Sez. Un., n. 6/2016) o, per dirla in altro modo, un «confortevole convincimento» (Sez. Un., n. 93/17).
Da ciò discende una conseguenza ulteriore: non spetta alla persona offesa comprovare l’accusa in modo inoppugnabile, mentre ricade sull’accusato l’onere di confutare l’illecito che – con un certo grado di probabilità – gli viene contestato.
L’attenuazione dello standard probatorio si basa su una ragione concreta: se anche nel giudizio sportivo, come in quello penale, fosse richiesta un’assoluta certezza per arrivare alla sanzione, si rischierebbe di rallentare il procedimento, e ciò inciderebbe sul regolare andamento delle competizioni sportive.
La decisione
Dalla decisione risulta che «la sequenza dei fatti in campo (…) è sicuramente compatibile con l’espressione di offese rivolte, peraltro non platealmente (con modalità tali cioè da non essere percepite dagli altri calciatori in campo, dagli Ufficiali di gara o dai rappresentanti della Procura a bordo del recinto di giuoco), dal calciatore interista», il quale non le ha «disconosciute».
Dunque, è stata «raggiunta sicuramente la prova dell’offesa», ma «il contenuto discriminatorio (…) risulta essere stato percepito dal solo calciatore “offeso”». Per cui il giudice ha affermato di non aver rinvenuto «indizi gravi, precisi e concordanti» tali da consentirgli «una ragionevole certezza» sulla portata razzista dell’insulto rivolto a Juan Jesus.
I dubbi sulla decisione
La decisione solleva alcuni dubbi, poiché appare in contrasto con il consolidato orientamento della giustizia sportiva – che si concordi o meno con lo stesso (e chi scrive non concorda) – secondo cui basta un certo grado di ragionevole certezza sulle accuse per arrivare alla condanna dell’accusato.
Due circostanze avrebbero potuto sostanziare tale grado di certezza. Da un lato, nella pronuncia si afferma che le parole usate da Acerbi verso Jesus non sono state «disconosciute nel loro tenore offensivo e minaccioso» dal calciatore interista; dall’altro lato, pur in mancanza di prove esterne, il giudice non mette in discussione «la buona fede» del calciatore del Napoli circa il carattere discriminatorio di tali parole.
A quest’ultimo riguardo, in una serie di pronunce (da ultimo, n. 58 del 23 novembre 2023), la Corte Federale d’Appello ha affermato che le dichiarazioni della persona offesa «possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato», anche «senza la necessità della presenza di riscontri esterni», «purché siano valutate con particolare rigore e (…) non emergano elementi in grado di smentirle». In altri termini, per comprovare la colpevolezza dell’accusato possono bastare le parole dell’accusante, la cui attendibilità va verificata con attenzione, chiedendosi pure per quale motivo avrebbe fatto una denuncia non vera, col rischio di essere imputato a propria volta per assenza di «lealtà, probità e correttezza» (art. 4, codice di giustizia sportiva).
In conclusione, il giudice ha disatteso il principio del «ragionevole affidamento in ordine alla commissione dell’illecito», che nel procedimento disciplinare sportivo è sufficiente per arrivare alla condanna, poiché ha omesso di applicare un ulteriore principio, secondo cui va valutata la credibilità soggettiva dell’accusante quando mancano prove esterne.
È singolare la mancata applicazione di principi consolidati proprio in occasione di un caso di presunto insulto razzista. Come pure è singolare che, mentre in un primo momento pareva assodato che la cosiddetta N-word fosse stata pronunciata, viste anche le scuse in tal senso da parte di Acerbi, poi la versione dei fatti è stata ribaltata, e il giocatore ha negato intenti discriminatori.
Negli Usa
La N-word è offensiva, nello sport come altrove, a qualunque fine sia usata. Negli Stati Uniti ci sono arrivati decenni fa. Invece, in Italia si preferisce continuare a questionare sugli intenti, in un ambito giuridico in cui gli intenti non contano; ad appigliarsi al fatto che l'offesa non sia stata «rivolta platealmente», lasciando intendere che basta proferirla in modo meno ostentato per restare impuniti; a rilevare che il giocatore insultato «non ha espresso alcun dissenso» sulla ripresa della partita, come a dire che la vittima è meno credibile qualora non si ribelli all’offesa.
Se la polvere di fastidiose accuse di razzismo viene messa sotto il tappeto, così che non si veda, può continuare a fingersi che il problema non esista. Almeno fino al prossimo episodio.
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