Sono spazi ambulatoriali nati per curare gratuitamente chi non riesce ad accedere ad alcuni servizi. Non si vogliono sostituire al Ssn, ma rispondono quotidianamente a un bisogno diffuso tra i cittadini
Liste d’attesa senza fine, visite private convenzionate a prezzi insostenibili e fuori città, carenza di medici di base e cure specialistiche inaccessibili: i motivi per cui le persone sono sempre più in difficoltà ad accedere alle cure sono profondamente intrecciati alle scelte politiche che hanno portato a un definanziamento delle sovvenzioni statali al Servizio sanitario nazionale (Ssn), alla mancanza di reddito e di una medicina di prossimità. Gli ambulatori popolari, spazi sociali e ambulatoriali dedicati alla presa in carico delle necessità di salute dei cittadini, nascono in Italia per curare gratuitamente le persone che hanno difficoltà ad accedere al Ssn e per denunciare pubblicamente il mancato accesso universale al diritto alla salute.
Il ruolo
L’erosione progressiva dei servizi pubblici, in un tempo in cui il diritto alla salute è sempre più minacciato da disparità socioeconomiche e politiche, ha portato nel tempo a un aumento di richieste d’accesso agli ambulatori popolari: le persone, infatti, hanno sempre più difficoltà ad accedere gratuitamente alle cure, anche nel ceto medio. La medicina di prossimità, laica e gratuita, è il modello messo in pratica dalle persone che lavorano negli ambulatori a titolo volontario: mette a disposizione le proprie competenze mediche e diagnostiche per non escludere nessuno dalle cure e per supplire alla mancata presa in carico da parte dei servizi di pubblica sanità. La medicina di prossimità diventa un modello virtuoso che, da nord a sud, basa il suo modello d’azione sull’approccio di prossimità: un’idea e una pratica di cura collettiva, inclusiva e solidale. Le cause profonde delle disuguaglianze, per gli ambulatori popolari, possono essere trattate anche tramite pratiche di reciprocità: cure somministrate in ambulatorio, pranzi di comunità, laboratori e assemblee di quartiere.
Chi arriva a chiedere aiuto a questi spazi, in primis, è spesso relegato ai margini della società: pensiamo alle persone senza fissa dimora o alle persone migranti senza permesso di soggiorno – o con la tessera Stp provvisoria – che non avrebbero altri modi, oltre ai servizi del pronto soccorso, per accedere a un percorso di presa in carico. Ma non sono solo queste soggettività ad aver bisogno di cure: nell’ultimo rapporto presentato dal Laboratorio salute popolare (Lsp) di Bologna, in una regione presa a esempio come modello virtuoso della sanità italiana, numerose sono state le persone nate e cresciute in Italia a chiedere aiuto: la precarietà lavorativa e abitativa, influisce enormemente sulla fragilità di salute. Molte delle persone che hanno accesso agli ambulatori sono disoccupate, in situazioni di disagio abitativo e senza reddito; altre hanno un lavoro precario, una piccola pensione, un reddito che non copre i bisogni di salute, o sono studenti.
Le testimonianze
«Devo prenotare da sei mesi una visita urologica, le uniche possibilità sono fuori Bologna, ma non ho auto e sono solo», dice F., 75 anni. «Ho 24 anni e sono uno studente universitario sono andato al csm per chiedere aiuto psicologico in un momento difficile, mi hanno detto che la psicoterapia dovevo farla altrove, da un privato; nonostante io gli dicessi che non potevo permettermela. Mi hanno prescritto dei farmaci per gli attacchi di panico e poi sono stato abbandonato».
Queste testimonianze, raccolte dai volontari degli ambulatori popolari, sono lo specchio di un sistema sanitario sottofinanziato, che non riesce più ad accogliere, in tempi adeguati, le richieste di chi non ha altra possibilità che rivolgersi alle strutture pubbliche. Non ci sono limiti di età o nazionalità nell’accesso alle cure degli ambulatori popolari, ma un problema comune: la mancanza di accesso alle cure del Ssn è figlia di una popolazione sempre più fragile, povera e precaria. Troppo povere per la medicina privata e ostacolate nell’accesso a quella pubblica, le persone si rivolgono agli ambulatori popolari perché non hanno alternative possibili, come R. di 32 anni, «sto aspettando di poter fare un ecografia transvaginale da oltre sette mesi, il lavoro precario non mi permette di pagare una visita privata. Non sono riuscita ad accedere al consultorio per una visita diretta per limiti di età: un giorno stavo molto male e sono andata in pronto soccorso, mi hanno visitata dopo 12 ore dicendo che dovrei fare l’ecografia».
Due esempi
A Bologna il Laboratorio salute popolare (Lsp) offre un ambulatorio dentistico, uno sportello di ascolto psicologico, un ambulatorio di consulenza ginecologica e uno sportello di medicina di base. Il loro ambulatorio odontoiatrico ha appena ricevuto una convenzione con Ausl Bologna per un rimborso di 20mila euro all’anno per le prestazioni eseguite. Un primo passo per la dimostrazione che esiste un modo diverso di fare salute, che funziona e che non vuole sostituirsi al Ssn, ma nemmeno nascondere le sue falle.
Il Lsp lavora per capire quali soggetti rimangono esclusi dal sistema pubblico (tramite il triage sociale, ovvero una mappatura dei bisogni e delle persone che si avvicinano agli ambulatori) e per denunciare la mancata garanzia dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) ed estenderli in città. Se la fragilità economica porta le persone a essere vulnerabili dal punto di vista clinico, con l’idea della salute solo come cura di una patologia, la salute «non potrà che peggiorare». A dichiararlo a Domani è il medico Franco Ingrillì, cardiologo della Rete ambulatori popolari di Palermo, che riflette sul concetto di salute «che, se è benessere psicofisico completo, nella società disegnata dai privati, riduce tutto alla malattia senza pensare alla prevenzione. Così si crea un mercato della salute dove la malattia diventa merce di scambio, nelle mani dei privati e dei privati convenzionati. C’è invece bisogno di medicina preventiva e di comunità, di cure di prossimità». E sono proprio queste pratiche di mutualismo che qui hanno portato all’apertura di tre ambulatori popolari.
L’idea di una medicina che affondi saldamente le radici nel territorio è alla base di queste realtà: una medicina di comunità che parte dai poli sanitari e arriva alle équipe itineranti di medici per le strade. Per il dottor Ingrillì, «l’obiettivo dei direttori generali non è più difendere il diritto alla salute, ma l’equilibrio economico aziendale al cui obiettivo si sacrifica tutto il resto. Nel bilancio di una regione, quello sanitario rappresenta il 60-70 per cento del bilancio complessivo. Per questo motivo in Sicilia la sanità è stata il settore in cui si è esercitato maggiormente il voto di scambio politico-mafioso e in alcuni settori la sanità privata convenzionata è stata largamente maggioritaria».
In questo quadro, l’autonomia differenziata non fa che «cristallizzare e accentuare le differenze nella erogazione dei servizi sanitari, che già è fortemente diseguale fra Centro, Nord e Sud, come si evince agevolmente con la differenza rilevante di mortalità nella popolazione anziana e con forte disagio sociale».
L’autonomia differenziata, dunque, «è un segnale formidabile di razzismo e insensibilità sociale. Il Ssn solidaristico e universale non c’è più, ma ci sono 20 servizi sanitari con un servizio pubblico residuale e marginale, delegato ad assolvere servizi di pronto soccorso e di emergenza e urgenza, i servizi più costosi in termini di consumo di risorse».
Negli ambulatori offrono servizi di counseling socio-sanitario per orientare i pazienti a un uso corretto dei servizi sanitari regionali, ma «ci siamo accorti che i servizi non erano più fruibili, con liste di attesa insopportabili, per cui ci siamo via via orientati a offrire servizi sostitutivi che rispondevano a un bisogno impellente della popolazione». In un tempo in cui la salute pubblica scivola velocemente verso un sistema sempre più privatistico, questi luoghi ridisegnano la strada di una cura universale, senza la morsa del profitto.
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