Quando è successo, l'hanno saputo tutti meno che lui. Lui stava sul centrale del Roland Garros a fare quello che sa fare meglio, giocare a tennis il quarto di finale di un torneo Slam contro il bulgaro Dimitrov, diventato improvvisamente tignoso dopo essere stato docile per i primi due set. Il cielo di Parigi era ventoso, non proprio l'ideale per una pallina che vola in aria, il pubblico moderatamente contro di lui, non perché aveva eliminato nei turni precedenti due francesi, ma perché era ghiotto di partita e voleva che lo show continuasse.

In una pausa uno spettatore gli ha gridato «sei numero uno». Tre parole che potevano avere un doppio senso. Sei il numero uno per me, oppure sei il numero uno nella classifica mondiale di questo sport. I dubbi forse si sono un po' sciolti, nella sua testa, quando quell'affermazione perentoria si è ripetuta sulla bocca di tanti altri “aficionados”, termine coniato da Gianni Clerici, un doveroso omaggio allo scriba massimo purtroppo scomparso, assente in questo giorno così fausto per il tennis italiano.

Se lo dicevano in tanti doveva essere una constatazione oggettiva, non il moto d'amore da tifosi. Poco dopo ha avuto un passaggio vuoto, ha perso il servizio per la prima volta nel match e lo si poteva interpretare come un attimo di commozione rara in un atleta che non si disunisce mai. Si è subito ripreso, ha chiuso in bellezza, forza ed eleganza.

Nella rituale intervista al vincitore, gli è stato chiesto del suo incontro, delle prospettive per la semifinale, di come si sente. All'ultima domanda di Fabrice Santoro, quasi un post scriptum, lo svelamento definitivo del segreto di Pulcinella. Novak Djokovic il serbo ormai ex padrone del ranking, ha dato forfait per il male a un ginocchio dopo due partite vinte al quinto set tra sofferenza e dolore, non potrà difendere il suo primato. E Jannik è stato Jannik. La voce ferma che non tradisce emozioni, semmai svelate dagli occhi ridenti, nessuna reazione scomposta, nessuna euforia.

La frase banale che, chissà perché?, come tutte le frasi pronunciate da lui non è suonata banale ma semplice, essenziale. «Diventare numero uno è il sogno di ogni giocatore». Subito, poi, un omaggio al campione che abdica al trono unito al desiderio che si riprenda presto dall'infortunio. Infine un atteggiamento “flatteur” verso il pubblico che, almeno finora, non lo ha sostenuto: «Se sono arrivato qui lo devo anche a voi».

Il ragazzo Sinner ha 22 anni ma sa stare al mondo come e più di un navigato trentenne, sarà perché nel suo breve percorso ha già attraversato molte vite sempre dimenticando l'oggi e dando appuntamento al domani, quasi sapesse di avere il tempo come miglior amico e fosse abituato non al carpe diem ma al ciclo contadino semina-raccolto. Era teenager quando fu annunciata la nascita della sua stella, salvo essere offuscato in breve da Carlos Alcaraz, lo spagnolo ancora più giovane di lui e, nelle preferenze italiane, dalla meteora Berrettini.

Un brusco e repentino ridimensionamento accompagnato dalle polemiche sulla residenza a Montecarlo che avrebbe potuto abbattere un carattere meno strutturato. Non Jannik che tesseva la sua tela, cambiando allenatore, scomparendo dietro le quinte quel tanto che bastava per lavorare sulle debolezze, la scarsa attitudine ad aggredire la rete, il fisico fragile per reggere i ritmi folli dello sport professionistico. 

Le rinunce necessarie

Accanto alla serietà, alla dedizione «matta e disperatissima», le idee chiare sul percorso per arrivare alla meta ieri raggiunta. Anche a dispetto della rottura di certi cliché con scelte controcorrente. Lui, l'altoatesino più italiano degli altri italiani per attaccamento conclamato al tricolore, però fermo nell'idea di rinunciare alla Coppa Davis per la quale non si sentiva pronto (salvo conquistarla in seguito da eroe), lui che rinuncia agli Internazionali d'Italia per un problema fisico e si allena per Parigi ma ci mette la faccia, scende nella capitale per spiegare le sue ragioni e viene compreso, perdonato come è privilegio di pochi, per la disarmante sincerità che conquista. Mi sottraggo oggi ma abbiate fiducia, lo faccio per vincere domani. Promesse che suonano credibili e puntualmente rispettate.

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In quest'epoca di vittimismi e rancori, svetta e piace la sua misura. Quel rimanere composto anche davanti a evidenti torti, come quando un marchiano errore arbitrale gli sottrae una vittoria annunciata (contro Tsitsipas a Montecarlo), come quando il suo corpo, fortificato ma ancora in formazione lo tradisce e lui non si lamenta non impreca contro la malasorte perché c'è sempre un'altra chance, un'altra pallina da gettare oltre la rete, persino quella dei suoi stessi limiti.

È così che si diventa un patrimonio nazionale, un beniamino di tutti, capace di oscurare l'onnipresenza del calcio, di creare adunate in occasione delle sue esibizioni. Un azzurro come e più degli azzurri del calcio senza quell'esibizione di tatuaggi, vita mondana, starlette, anzi tenendo per cari e dunque celando, amori che pur sarebbero da copertina come l'ultimo e fresco con la collega Anna Kalinskaya.

Gli hanno chiesto come avrebbe passato la serata. Se guardando il quarto di finale da cui uscirà il prossimo avversario, uno tra Tsitsipas e Alcaraz o andando al ristorante. Imperturbabile ha ribattuto che le due cose possono coesistere anche se a lui, in generale, piace starsene tranquillo. Ma non si deve pensare che tanta saggezza, l'ingrediente per essere il figlio o il fidanzato ideale, sia il segno di condiscendenza. Fin da quando adolescente abbandonò lo sci, in cui pure era un fenomeno, a favore del tennis sapendo di dare un piccolo dispiacere ai genitori, aveva le idee chiare sulla necessità di essere protagonista del proprio destino. E ha avuto la fortuna si scoprire che il padre, la madre, sono stati lungimiranti al punto di non frenare il cambio di scena.

Educato, gentile, però fermo nei suoi propositi. I fatti gli hanno dato ragione. In pochi mesi ha scalato le gerarchie con una facilità figlia della felicità di chi è consapevole di aver scelto il mestiere che più gli aggrada e che dunque non sente fatica. Un manifesto contro gli stereotipi usati contro la sua generazione che dovrebbe essere sdraiata, abulica e inadatta ai sacrifici.

Altro stereotipo vuole che se è difficile arrivare in cima, ancora più complicato è rimanerci. Succede spesso. Può capitare anche al nostro altoatesimo, certo. Ma già da ora, mentre celebriamo questo primato senza precedenti per lo sport italiano, pare chiara una cosa: Jannik Sinner ha, in sé, tutti gli anticorpi per maneggiare con cura l'ebbrezza dell'alta quota. E se per qualsiasi motivo ruzzolerà di qualche metro si rialzerà dandoci la certezza che non è successo niente di grave. È vero che anche la pallina del tennis è rotonda, dunque capricciosa. Lui sa come mandarla nell'altro lato del campo, anche dopo un rovescio, con un concreto rovescio del suoi.

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