- La mafia, in tempi di pace, se non la cerchi non la trovi. È difficile raccontarla quando non spara, quando non si manifesta con la violenza delle armi, le bombe, il sangue. Per il giornalismo è difficile farla diventare reportage, inchiesta, anche solo resoconto quotidiano.
- È un copia e incolla permanente di richieste di custodia cautelare spacciate come scoop, retroscena esclusivi che sono veline. I mafiosi con il “bollo”, il timbro della giustizia, per fortuna non godono più di buona reputazione. Perché perdenti.
- Meglio occuparsi della mafia del muro basso, la mafia nota. Che non querela, non cita per danni, abituata ai titoloni e alle urla. Le urla, un altro capitolo del giornalismo 2.0 o 3.0. Quelle degli “influencer dell’antimafia”, retorica a fiumi e una tempesta di “like” per i pensierini a ogni anniversario, con una sovrabbondanza di maiuscole su Facebook.
Se una cronaca li cita per nome, “Giovanni” e “Paolo”, cambio subito pagina perché la Sicilia in maschera ha cominciato ad andare in scena e in stampa con l’abuso delle parole. Se un giornalista si dichiara “antimafia” e il più delle volte la notizia non è ciò che scrive ma sé stesso, forti sospetti si insinuano su cosa sia (diventato) il nostro mestiere. Se un boss appena deceduto per cause naturali viene qualificato in un articolo come “gran bel pezzo di merda”, è legittimo chiedersi quanto sia necessario o irrilevante il sapere raccolto in questi anni sulle organizzazioni criminali, sulle loro relazioni esterne, su quella che abitualmente chiamano zona grigia e che in verità è molto nera.
Ci sono quelli che scrivono, quelli che si voltano dall’altra parte, ci sono quelli che bluffano. Ma forse bisogna iniziare da una grande fotografa per comprendere com’è cambiato e perché è cambiato il giornalismo in Sicilia e nei suoi dintorni. Letizia Battaglia, ottantasei anni il prossimo marzo, famosa in tutto il mondo per avere fatto conoscere con i suoi scatti il volto di Palermo anche nelle espressioni più crudeli, per un quarto di secolo ha fotografo i capi della mafia distesi a terra durante la guerra fra le “famiglie”, poi li ha immortalati dietro le sbarre nella stagione dei maxi processi e oggi si aggira per le vie della sua città con la Nikon al collo, confessando agli amici: «Io non so più fotografare la mafia».
La mafia senza lupara
La mafia, in tempi di pace, se non la cerchi non la trovi. È difficile raccontarla quando non spara, quando non si manifesta con la violenza delle armi, le bombe, il sangue. Dopo la spaventosa parentesi corleonese – con la sfida allo stato e l’eliminazione metodica dei nemici dentro le istituzioni – la mafia siciliana è tornata mafia e si è riappropriata della sua natura, ha ritrovato il suo dna, è sempre più discreta e a volte anche pettinata e profumata. Per il giornalismo è difficile farla diventare reportage, inchiesta, anche solo resoconto quotidiano. Le distanze fra mondo legale e mondo illegale si sono accorciate, per questa mafia “trasparente” (felice definizione di una giudice di Caltanissetta) è complicato conquistare la prima pagina. E così un giornalismo siciliano che sembra più pigro e qualche volta anche un po’ furbo sceglie la narrazione di quella che oramai è una “mafia degli emarginati”, i resti malconci della Cosa nostra, cosche allo sbando sotto i duri colpi di una repressione poliziesca-giudiziaria concentrata più sul passato che sul presente.
È un copia e incolla permanente di richieste di custodia cautelare spacciate come scoop, retroscena esclusivi che sono veline. I mafiosi con il “bollo”, il timbro della giustizia, per fortuna non godono più di buona reputazione. Perché perdenti. Una volta le prudenze erano ben altre, ricordo ancora un titolo esilarante di trent’anni fa: La presunta mafia di Agrigento. Se poi sono di infimo livello, in siciliano “scassapagghiari”, mezze tacche, l’accanimento è esagerato. Segnaletiche che mostrano le facce stralunate di quelli buttati giù dal letto alle tre del mattino, familiari strapazzati nelle intervistine a corredo, una banalizzazione e una “spettacolarizzazione” che ha fatto fare un grande salto indietro in Sicilia, luogo unico in Europa dove in poco più di vent’anni sono stati uccisi otto giornalisti.
Giornalisti senza etichette
Erano sempre un passo avanti agli altri. Da Cosimo Cristina a Mauro De Mauro dell’Ora, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, da Giovanni Spampinato a Beppe Alfano. Solo in questo mese se ne ricordano altri due, Mario Francese de Il Giornale di Sicilia assassinato a Palermo il 26 gennaio 1979 e Pippo Fava de I Siciliani assassinato a Catania il 5 gennaio 1984. È un giornalismo marpione – naturalmente con le dovute eccezioni – che non sfiora mai i fili dell’alta tensione, ricicla informazioni altrui, spalleggiato da una macchina della propaganda che rilancia e amplifica. Quando poi finalmente c’è l’occasione di scrivere qualcosa con nomi e cognomi e personaggi in carne e ossa, cala il silenzio.
È capitato di recente con Antonello Montante, l’ex vicepresidente nazionale di Confindustria con delega alla Legalità arrestato per associazione a delinquere e dossieraggio, condannato in primo grado a 14 anni con il rito abbreviato e ancora indagato per concorso esterno mafioso, corruzione e chissà quanto altro. La gran parte della stampa isolana, esclusa La Sicilia con Mario Barresi, è stata muta fino all’arresto. Eppure era tutto alla luce del sole, un sistema «di architettura perfetta, come si agisce dentro certe istituzioni» (copyright Montante) con commistioni fra ministri dell’Interno e imprenditori «nel cuore» di boss, magistrati, prefetti, alti comandi dell’Arma, generali della Finanza, servizi segreti. Il giornalismo, e non solo siciliano, ha aspettato solo la sentenza per sbilanciarsi un po’ e neanche tanto.
Urlato, ma di poca sostanza
Forse anche perché una ventina di colleghi, alcuni abbastanza noti, si sono ritrovati in un’informativa di squadra mobile, un capitolo di 62 pagine riservato solo a loro per i favori ricevuti. Meglio occuparsi della mafia del muro basso, la mafia nota. Che non querela, non cita per danni, abituata ai titoloni e alle urla. Le urla, un altro capitolo del giornalismo 2.0 o 3.0. Quelle degli “influencer dell’antimafia”, retorica a fiumi e una tempesta di “like” per i pensierini a ogni anniversario, con una sovrabbondanza di maiuscole su Facebook. La “Verità” e la “Giustizia”, la “mia Terra”, un “vero Uomo”, la “grande Magistrata”, i “nostri Martiri”, i “Giornalisti Giornalisti” da distinguerli dagli altri con la “g” minuscola, più tapini. Esistono numerosi specialisti del genere, ma si tratta di un giornalismo innocuo. Conformista, galleggiante, che piace al potere perché resta sempre in superficie, non affonda mai. Ama il rumore e il consenso.
Come quel telepredicatore di Partinico, il direttore di Telejato Pino Maniaci, un altro assediato dai fan “per le sue battaglie antimafia” fino a quando la magistratura gli ha imposto il divieto di dimora nella provincia di Palermo perché avrebbe preteso denaro da amministratori locali minacciandoli, in caso di rifiuto, di orchestrare campagne mediatiche. Ma non è l’aspetto giudiziario che a noi interessa (lì, ci penseranno i giudici dopo una richiesta dei pm a 11 anni e 6 mesi che francamente appare spropositata) ma altro. È la storia dei suoi cani Billy e Chérie che Maniaci trova impiccati. Sa chi è stato: il marito della sua amica, lo dice chiaramente in una conversazione che viene intercettata dai carabinieri. Ma Maniaci va in tivù e denuncia “la mafia” che non gli dà tregua, pur sapendo che non è vero. In un paio di minuti cancella due secoli di letteratura. La mafia, per ogni suo delitto, ha sempre fatto circolare voci calunniose su moventi privati, storie di “fimmini” e di “corna”. Il telepredicatore capovolge brutalmente lo schema: una vicenda di “fimmini” e di “corna” l’ha fatta diventare una storia di mafia.
Perché quella mafia, tranne che in circostanze molto particolari, non fa più paura a nessuno. È più pericoloso scavare dove in pochi si avventurano. Le misteriose latitanze dei padrini, i patti con lo stato a cavallo dei massacri del ‘92, i delitti eccellenti di Palermo. Più il tempo ci allontana da quegli avvenimenti e più il giornalismo siciliano nel suo insieme mostra indifferenza, più incline alla celebrazione che alla memoria, prigioniero dei riti, schiavo di verità giudiziarie che non sempre interpretano la realtà criminale. Ma c’è chi ha ancora voglia di capire. Sono considerati un po’ “fissati”, bizzarri. Un paio di corrispondenti di testate nazionali e poi tanti giovani colleghi di giornali online come Meridionews a Catania, I Siciliani giovani, Tp24 a Marsala e qualche altro ancora. Sono piccoli, sparsi negli angoli dell’isola, Se qualcuno dice che fanno “controinformazione” s’infuriano: «Facciamo solo informazione». Prendono botte da tutte le parti. Azioni civili, soprattutto. Di Girolamo, il direttore di Tp24, ha annunciato ai suoi lettori la prima querela del 2021: un commerciante sott’accusa per usura invocava il diritto alla privacy. Questi giovanissimi colleghi provano ancora il brivido per una notizia in più. Non si spostano mai da casa loro, sono giornalisti “residenti”. E il territorio, si sa, racconta sempre tutto. Basta solo saperlo e volerlo ascoltare.
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