Dalle Europee, intese come elezioni, all’Europeo, inteso come calcio, in ballo c’è qualcosa di comune: una certa idea di Europa ad ampio raggio, a livello politico, sociale, culturale e sportivo. Euro 2024 comincia venerdì 14 a Monaco di Baviera con la sfida tra la Germania padrona di casa e la Scozia, tra l’ex locomotiva continentale in termini economici, e una home nation che dal 2016 a oggi ha subito la Brexit voluta dal Regno Unito, ma a intervalli regolari invoca, attraverso il premier Humza Yousaf, tanto l’indipendenza quanto il ritorno nel mercato unico dell’Unione.

Già, l’Unione. Tra le qualificate all’Europeo, vi sono nazionali di Paesi il cui rapporto con l’Europa non può essere più diverso. C’è chi in Europa ci vuole entrare, chi ancora la sogna: l’Ucraina segnala la presenza di una nazione in guerra, e mai come in questo momento necessita dell’Europa e del suo sostegno, portando le proprie istanze anche sul campo. Come cambia la percezione del mondo: tre anni fa, a Euro 2021, il caso politico scoppiò perché, sulle maglie dell’Ucraina, era presente la silhouette dei confini nazionali comprendenti la Crimea, e la Russia protestò vibratamente. Ecco: la Russia in Germania non c’è e non ha neppure preso parte alle qualificazioni a causa del bando che lo sport ha imposto dopo l’invasione del febbraio 2022, con Fifa e Uefa che si sono accodate, anche piuttosto controvoglia, al Cio che, tirato per la giacchetta, aveva trovato il pretesto giusto nella violazione della tregua olimpica.

La cartina delle migrazioni

Tra chi guarda all’Europa con un certo favore, c’è una Georgia nella quale le manifestazioni pro-Ue, dopo la cosiddetta “legge russa” sulla trasparenza dell’influenza straniera, si susseguono con regolarità, e un recente sondaggio dell’International Republican Institute, organizzazione non governativa statunitense, ha rilevato come circa l’80% della popolazione georgiana condivida il desiderio di far parte dell’Unione.

Il che, alla luce dei sovranismi rinvigoriti dalle ultime elezioni europee, diventa paradossale proprio laddove storicamente si dovrebbe accelerare il progetto Europa, in Paesi come Francia, Germania, Austria e pure Italia, e invece trovano forza spinte eurofughe che non raccontano tanto di uscite stile Brexit, quanto di distinguo identitari ed egoistici, nella modalità del gruppo di Visegrád. E lì, appunto, ecco i soliti razzismi del però: di coloro che no, non sono razzisti, però.

La società vive un’attualità che la politica strumentalizza. L’Europeo del calcio, come sempre quando si parla di individui, racconta persone e popoli, e allora non è solamente una curiosità scoprire che di 624 calciatori convocati (26 per ogni nazionale), 76 sono nati in Paesi diversi rispetto a quelli dei quali difendono i colori. Parliamo del 12% degli atleti presenti, ma i numeri assoluti e le percentuali si alzano nettamente se si va a scoprire la storia famigliare dei ragazzi che hanno il privilegio di essere a questo Europeo, perché sono ben 158 coloro che, per motivi svariati, chi risalenti a storie di due-tre generazioni fa, chi a vicende molto più attuali, portano nei loro geni, nei loro cognomi o nei loro documenti esperienze di migrazione. Centocinquantotto su 624: siamo al 25%, uno su quattro, e sono tutte avventure di vita, mescolanze che costruiscono identità non univoche e creano la società europea, quella che viviamo ogni giorno, radici per le quali l’unico aggettivo qualificativo possibile è umane, e tanto basta.

Le polemiche

Del resto, i dati di cui sopra non sono neppure sovrapponibili: non è scontato che chi appartiene al secondo gruppo appartenga anche al primo, perché a complicare tutto ci sono anche le leggi sulla cittadinanza, chi decreta per ius sanguinis e chi per ius soli, chi fa convivere i due istituti giuridici; ci sono le doppie cittadinanze, le naturalizzazioni, le opportunità di carriera, i retaggi coloniali, le indipendenze proclamate e quelle riconosciute, e ovviamente le migrazioni vere e proprie.

Un campionario vasto, capace di conseguenza di dare adito alle polemiche più pretestuose. Così, a quelle che stanno accompagnando il capitano della nazionale tedesca İlkay Gündoğan (e quelli nei confronti dei “turchi” che hanno scelto la Germania, o dei “tedeschi” che hanno scelto la Turchia: sono tutti stranieri e verräter, traditori, a seconda del pregiudizio), si accompagnano quelle di chi, in Francia, vorrebbe quote bianche in una nazionale nella quale venti ragazzi hanno un passato famigliare migratorio, eppure appena tre di essi sono nati fuori dalla Francia (Maignan, Camavinga e Thuram). La rosa dell’Albania meriterebbe un approfondimento, per ciò che è stato e ha rappresentato la diaspora albanese, per i suoi approdi, per ciò che significa l’identità albanese per il Kosovo (e viceversa), per il particolare rapporto con la Svizzera. E poi il Belgio, il Portogallo, l’Inghilterra, i Paesi Bassi e tutte le nazioni che mostrano con l’evoluzione demografica il loro passato coloniale, ma non solo, irritando i peggiori nazionalisti che nemmeno si prendono la briga, banalmente, di studiare, o che, se anche hanno studiato, proprio per questo sono colpevoli perché danno le mostrine dell’identità in base ai tratti somatici.

La società, invece, evolve, è radici e ali, e così gli oltre centocinquanta ragazzi di cui sopra allargano i confini di quello che, al contrario, è l’Europeo più ristretto da Euro 2000 in avanti, geograficamente parlando. Dove, sul fronte orientale, la Russia non c’è, e da quello settentrionale è completamente sparita la penisola scandinava, mentre la Mitteleuropa è presente in forze, un blocco compatto, peraltro politicamente più sovranista di quanto ci si attendesse, ciò che diventa un noi contro gli altri un po’ meno sublimato e narcotizzato che in passato. Perché, in fondo, lo sport non ha mai realmente aiutato la percezione europea, anzi soprattutto ha rafforzato le rivalità nazionali, pur tenendo presente che l’Europa sportiva è più vasta di quella politica, e molto di più se la si rapporta ai confini di un’Unione in crisi.

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