Da quando ha preso in mano l’Italia del rugby, esattamente un anno fa, l’ha portata a giocare il miglior Sei Nazioni della storia. Due vittorie e un pareggio, Menoncello eletto miglior giocatore del torneo, il capitano Lamaro miglior placcatore, la meta di Pani (Galles-Italia) votata la più bella.

Una sbornia in piena regola da archiviare in fretta, perché il verbo accontentarsi è sconosciuto a Gonzalo Quesada. Meticoloso lo era da giocatore, proverbiale la sua routine dei calci dalla piazzola. Mediano di apertura dell’Argentina, 38 presenze, miglior realizzatore di punti nella Coppa del Mondo 1999. Da allenatore conserva la maniacalità nei dettagli e nell’organizzazione.

«Quello che abbiamo fatto quest’anno è importante ma c’è tanto lavoro ancora da fare. Io chiedo tanto impegno e molti sforzi a tutti ma sono tremendamente esigente in primis con me stesso e con il mio staff. Ho il piacere di guidare un gruppo che ha qualità di rugby, etica del lavoro, competenza e umanità straordinaria. Ho proposto una nuova metodologia di lavoro, costruendola in sinergia con loro. Non possiamo competere con il campionato francese, inglese, con le franchigie migliori, perché abbiamo meno di tutto, meno giocatori, meno infrastrutture, ma proprio per questo dobbiamo insistere nel crescere sui dettagli». 

Alle porte i tre Test Match di novembre. Si inizia da Udine contro l’Argentina reduce dal suo miglior Rugby Championship di sempre. A seguire la sfida alla Georgia a Genova. Si chiude con gli All Blacks a Torino

La mia sfida più importante è continuare a sviluppare il movimento italiano, accompagnare la Federazione in questa visione, insistere sulla nostra identità, riuscire ad alzare il livello delle due franchigie (Treviso e Parma), avere più giocatori a disposizione, aumentare la base di ragazzini che iniziano a giocare

Studia in continuazione, dalla tecnica alla psicologia, divora libri e podcast sulla leadership. Le piace entrare nella testa dei suoi giocatori

Mi appassiona molto la strategia del gioco, sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, come Italia vogliamo sorprendere gli avversari. Ma noi allenatori gestiamo ragazzi e uomini. Un 40% del lavoro è incentrato sul gioco, il 60-70% sulla gestione del gruppo. La mia ambizione è costruire una migliore performance tecnica in un ambiente di crescita umana

Nato 50 anni fa respirando la cultura dei club argentini, circoli polisportivi che sono un collante sociale, luoghi che tramandano un senso di comunità

In Argentina l’appartenenza ai club è un valore, ti resta dentro per tutta la vita. Sono cresciuto all’Hindù, il club più vincente di Buenos Aires a livello rugbistico, dove però si possono praticare tanti altri sport. Amo il polo, abbiamo dei cavalli nella fattoria di famiglia. Fino a 18 anni mi dividevo ad alto livello tra calcio e rugby, poi ho dovuto scegliere, non potevo più conciliare gli impegni di due diversi campionati. Mio padre Bebe lavorava come rappresentante di profumi ma era anche l’allenatore della prima squadra di rugby dell’Hindù.

Per noi italiani l’Hindù Club ha un ricordo affettivo, era il ritiro della nazionale durante i Mondiali di calcio del 1978. C’era pure la Francia di Platini in quella sede. Quasi un segno del destino, i suoi futuri paesi d’adozione

Due paesi che sono nel mio DNA. Mio nonno materno era di Trieste, mia nonna paterna proveniva da un piccolo paese del Sud della Francia. Il Mondiale 1978 lo ricordo poco, avevo quattro anni. Il mio club è sempre stato molto gettonato, anche il Boca o l’Independiente per anni hanno svolto la preparazione all’Hindù.

Come ha vissuto il dramma della repressione e degli orrori della dittatura di Videla?

Abitavamo in un quartiere residenziale ma periferico nel Tigre Partido, a nord di Buenos Aires. Le nostre famiglie avevano creato una bolla protettiva, noi bimbi non percepivamo nulla di ciò che accadeva. Nell’82 ho iniziato a capire che esistevano i conflitti per via della guerra delle Malvinas (Falkland, ndr). Ho un ricordo nitido a 9 anni, eravamo andati in centro, in Avenida 9 de Julio c’era una marea di gente che urlava di gioia. Io mi dicevo: ma sono impazziti, che sta succedendo? Era il 30 ottobre 1983, si festeggiava l’elezione del presidente Alfonsín. Solo dopo, crescendo, ho realizzato la potenza di quel giorno: la fine della dittatura e il ritorno alla democrazia.

Da piccolo il suo mito chi era, Maradona?

Ovvio. Il Mondiale 1986 vinto da Diego ha marcato la mia generazione. Non sono stato sempre d’accordo al 100% con tutto ciò che ha fatto e detto fuori dal campo, ma resta un idolo. Nel mio cuore custodisco l’emozione pazzesca vissuta nel 1999 alla consegna dei premi Olimpia (il più importante riconoscimento dello sport in Argentina, ndr): eravamo sul palco insieme, io eletto personaggio dell’anno e lui sportivo del secolo.

Nel 2022 uno dei momenti più tragici per lei, la morte di Federico Martin Aramburu, rugbista ex Pumas. Assassinato con quattro colpi di pistola nel cuore di Parigi per aver difeso un giovane afrodiscendente da attivisti di estrema destra. Era uno dei suoi migliori amici. 

Un dolore atroce. Fede rappresenta tutti i valori forti del rugby: altruismo, correttezza, condivisione, sempre disponibile con tutti. Parlo di lui ancora al presente. Quella sera ero in ritiro nel Sud della Francia come allenatore dello Stade Français. Non ho avuto nemmeno il tempo di chiudermi nel dolore, avevo il dovere di essere un aiuto per la moglie e i tre figli, dovevo organizzare il viaggio per i suoi genitori dall’Argentina a Parigi. È ciò che accade ancora oggi, noi amici restiamo sempre vicini alla famiglia di Fede

Da adolescente vedeva il rugby nel suo futuro?

No, perché mi dividevo tra libri e partite. Ero già in Nazionale ma in Argentina il rugby non è professionistico quindi dovevo avere un piano B. Solo dopo la laurea in Economia Aziendale e Amministrazione nel 1999 mi son detto: ok, adesso a 25 anni posso andare a giocare in Europa, faccio tre-quattro stagioni e poi torno a casa. Invece in Francia ho trascorso nove anni da giocatore, poi a Parigi ho iniziato il percorso da allenatore.

In cosa è diventato un po’ francese?

Da adulto ho passato molto più tempo in Francia che in Argentina, ho assimilato una cultura europea ormai. Quando sono arrivato mangiavo sano, semplice, ma senza attenzione, non bevevo né vino né caffè. Ho iniziato ad appassionarmi al cibo, ad affinare il gusto. Sono diventato francese nel piacere del bien manger. So apprezzare un calice di buon rosso.

Anche italiano?

Nell’ultimo anno ho fatto una full immersion tra Valpolicella, Montepulciano e Barbaresco. I piatti della tradizione italiana li ho provati tutti. Mangio più carne e pesce ma il risotto con i funghi porcini è una esperienza soprannaturale. 

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Il suo contratto con la Federugby iniziava dal primo gennaio 2024 ma lei già a fine ottobre 2023 aveva completato il trasloco. Cioè, si è trasferito in Italia senza essere ancora pagato. Aveva l’urgenza di calarsi nella nostra realtà?

Per me era molto importante conoscere il vostro rugby il più velocemente possibile. Non parlavo una parola di italiano ma l’ho studiato, da straniero ero io che dovevo adattarmi. È una questione culturale, siamo la nazionale che rappresenta l’Italia quindi io voglio parlare in italiano con i giocatori e con tutto lo staff

Di fatto l’Italia non l’ha più lasciata. 

Nell’ultimo anno sono andato cinque giorni in Argentina a Natale per fare una sorpresa ai miei, il resto del tempo l’ho trascorso qui. Vivo appena fuori Milano, mi trovo benissimo. Viaggiando spesso, soprattutto tra Parma e Treviso dove si trovano le nostre due franchigie, ho avuto modo di scoprire le ricchezze del vostro paese.

Tra i nuovi amici “italiani” c’è anche il suo connazionale Julio Velasco. 

È nata una bella connessione, è motivante. Lui abita a Bologna ma capita spesso a Milano. Nell’ultima cena insieme abbiamo chiacchierato di gestione di squadre fino a notte inoltrata.

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