- Il “green pass” è stato esteso a ogni ambito lavorativo dall’ultimo decreto-legge. Arrivati a questo punto, occorre chiedersi a cosa serva davvero la certificazione verde nell’uso che il governo ne sta facendo. Molti sembrano fare confusione tra il mezzo e il fine.
- La confusione deriva dal fatto che l’obbligo di pass per poter lavorare finisce per identificarsi con l’obbligo vaccinale, data l’insostenibilità di un tampone ogni 48/72 ore. Ciò porta a confondere il fine (massima copertura vaccinale) con il mezzo (“green pass”). Ma non è il “green pass” a tutelare la salute, bensì la vaccinazione indotta dalla sua imposizione.
- L’obbligo di “green pass” nei luoghi di lavoro, nonostante comporti un obbligo vaccinale in via indiretta, ha consentito al governo di poter trascurare alcune condizioni previste dall’ordinamento per l’imposizione di un vero e proprio obbligo vaccinale.
Il “green pass” è stato esteso a ogni ambito lavorativo dall’ultimo decreto-legge. Arrivati a questo punto, occorre porsi una domanda: a cosa serve la certificazione verde nell’uso che il governo ne sta facendo per i luoghi di lavoro?
Nella conferenza stampa di presentazione del decreto si è detto che esso serve a tutelare la salute nei luoghi di lavoro, ma pure a spingere le vaccinazioni. Sembra vi sia una certa confusione tra mezzo (“green pass”) e fine (massima copertura vaccinale).
Il progressivo ampliamento del “green pass”
La certificazione verde digitale nasce in ambito europeo, per consentire ai cittadini di muoversi alle medesime condizioni tra i diversi Stati membri, nel rispetto del principio di libertà di circolazione.
Tale certificazione è stata adottata dal governo a uso interno, come consentito dal relativo Regolamento europeo (2021/953), ed è stata resa condizione per accedere a determinati luoghi (d.l. n. 105/2021).
La “ratio” dell’obbligo era chiara, per quanto non adeguatamente spiegata: si tratta di posti nei quali, per le caratteristiche delle attività che vi si svolgono, ad esempio le palestre, o perché non possono essere utilizzati dispositivi di sicurezza e si sta al chiuso, come nei ristoranti, presentano rilevanti rischi di contagio.
Poi il “green pass” è stato esteso ai lavoratori della scuola (d.l. n. 111/2021), e se ne è cominciato a confondere il senso. Da strumento per favorire la mobilità e la ripresa economica, è diventato condizione per poter lavorare.
Inoltre, la libertà di scegliere tra vaccinazione e tampone si è fatta più sfumata: il costo di un tampone ogni 48 o 72 ore in alternativa al vaccino, è un onere gravoso, anche se calmierato, così che nei fatti non resta altra possibilità che vaccinarsi.
Ci si è chiesti, allora, perché non fosse stato imposto un obbligo vaccinale in via diretta, come per il personale sanitario: anche gli operatori scolastici svolgono mansioni a contatto con il pubblico ed entrambe le categorie garantiscono diritti tutelati dalla Costituzione, salute e istruzione.
Per altro verso, non è stata chiara la ragione per cui sin dall’inizio non si sia imposto il “green pass” a chi lavora in luoghi ove le norme prescrivono tale strumento per l’entrata di chiunque: sarebbe bastato ricomprendere anche l’accesso dei lavoratori.
A cosa serve il “green pass” nei luoghi di lavoro
Ora che il “green pass” è stato esteso a tutti i luoghi di lavoro, è essenziale rispondere alla domanda sulla sua effettiva funzione. È il certificato verde oppure la vaccinazione ciò che “salva” la salute dei singoli e della collettività, nonché le attività da essi svolte, consentendo al Paese di uscire dalla pandemia, nonché dalla crisi economica che essa ha causato?
Il fatto è che, nel giustificare l’obbligo di “green pass” nei luoghi di lavoro, si continuano a citare da più parti gli effetti derivanti dalla vaccinazione – riduzione di contagi, morti e ospedalizzazioni - con una palese sovrapposizione fra pass e vaccino.
La confusione deriva dal fatto che l’obbligo di pass per poter lavorare finisce per identificarsi con l’obbligo vaccinale, data l’insostenibilità di frequenti tamponi, come spiegato. È questo che porta a confondere il fine con il mezzo. Ma non è il “green pass” a tutelare la salute di coloro ai quali viene imposto, bensì la vaccinazione indotta dall’imposizione del pass.
Dunque, quando si dice che nei mesi scorsi il pass ha funzionato, di fatto si attribuisce alla certificazione verde l’effetto della vaccinazione. L’effetto dell’obbligo di certificazione è, invece, solo quello di portare poco gentilmente le persone a vaccinarsi, considerata la sanzione di non poter lavorare e guadagnare se non lo si fa. Altro che nudge. Per un profilo diverso, il “green pass” obbligatorio attesta la rinuncia a cercare altri modi per convincere i renitenti a immunizzarsi.
Un “obbligo” senza paletti
Dunque, il pass rappresenta lo strumento attraverso cui ottenere la massima adesione alla campagna vaccinale. Siccome la certificazione obbligatoria per entrare in cinema, ristoranti, musei ecc. non è bastata a ottenere la copertura necessaria a mettere il Paese in sicurezza – nonostante le percentuali previste siano stati raggiunte, e questo lascia perplessi - si procede a un’ulteriore stretta, ponendo il pass come condizione per lavorare.
Il fine giustifica i mezzi, si potrebbe dire, basta spingere le vaccinazioni e vale tutto. Ma questo non è sempre vero sul piano del diritto.
Il fatto è che l’obbligo di “green pass” nei luoghi di lavoro, nonostante comporti un obbligo vaccinale in via indiretta, ha consentito al governo di poter trascurare alcune condizioni previste dall’ordinamento per l’imposizione di un vero e proprio obbligo vaccinale.
Innanzitutto, la prescrizione di una vaccinazione per lo svolgimento di un’attività lavorativa avrebbe richiesto la valutazione delle mansioni che comportano rischi maggiori da Covid-19. L’obbligo di vaccino sarebbe stato giustificato solo per i lavoratori sottoposti a un “rischio specifico” di contrarre il virus, come gli operatori sanitari – ad esempio, quelli che hanno contatti con il pubblico - e non per gli altri. Invece, l’obbligo di pass, data la (pseudo) alternativa del tampone, non richiede tale valutazione.
Se, invece, si fosse voluto sancire un generale obbligo di vaccinazione in via diretta – anziché arrivarci per via traversa, con l’imposizione del “green pass” per qualunque cosa - i principi di proporzionalità e necessarietà avrebbero richiesto, tra l’altro, di giustificarne la ragionevolezza in considerazione della copertura vaccinale già raggiunta e dell’impossibilità di conseguire mediante strumenti diversi la copertura reputata idonea a mettere in salvo la popolazione, sì da ricorrere all’obbligo come extrema ratio.
Ad esempio, si sarebbe dovuta dimostrare l’insufficienza dello «strumento della persuasione (…) sul piano della efficacia» (Corte costituzionale, sent. n. 5/2018): in Italia una campagna istituzionale tesa a instaurare «un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione» non solo è stata carente, per usare un eufemismo, ma anzi si sono spesso alimentati atteggiamenti negativi rispetto ai dubbiosi sulla vaccinazione.
La prescrizione di un obbligo diretto, inoltre, avrebbe comportato lo stanziamento di fondi per indennizzare i danni derivanti dalla vaccinazione anti-Covid.
L’indennizzabilità è prevista dalla legge (l. n. 210/1992) solo per i vaccini obbligatori, ma la Consulta l’ha estesa di volta in volta anche a quelli solo raccomandati. È ragionevole ritenere che, investita della questione, la Corte farebbe lo stesso per il vaccino anti-Covid. Ma al momento non c’è un automatismo.
In conclusione, con il nuovo decreto ora vige un obbligo vaccinale in via indiretta senza le garanzie previste dalla legge per l’imposizione di un obbligo vero e proprio, e comunque senza che ciò paia contrastare con il diritto. Come si sia potuti arrivare a questo punto è una delle domande cui, nel tempo, servirà dare una risposta.
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