Tutti gli imperi crollano. È un ciclo, i potenti lo sappiano. Camminano lungo il bordo dell’abisso anche Pep Guardiola e il suo regno al Manchester City. Attendono la fine o la resurrezione. In Inghilterra hanno stabilito il giorno del giudizio, il d-day: per il Guardian la data da cerchiare è il 15 dicembre, quando andrà in scena City-United, a Manchester la madre di tutte le sfide.

Ma c’è un crinale di non poco conto da superare. Vale tanto la sfida in Champions League di mercoledì 11 contro la Juventus, una partita che potrebbe decretare la fine anticipata dell’impero di Pep. Di là Thiago Motta, allievo, seguace, uno dei tanti Bruto pronti a pugnalare il padre del tiki-taka. Lo sport è sempre parricida, soprattutto tra gli allenatori. Non si fanno sconti. Guardiola è un imperatore stanco, fragile, vulnerabile.

«In questo club devi vincere e, se non vinci, sarai nei guai», ha dichiarato il tecnico. «So che la gente dice: "Perché Pep non è nei guai? Perché Pep non è stato esonerato?”. Quello che abbiamo fatto negli ultimi otto anni è il motivo per cui ho questo margine”. Beati gli allenatori che ancora credono nella grandiosità della storia. No, lo sport non ha memoria né riconoscenza. Dopo il ko contro il Liverpool i tifosi di Anfield gli gridavano: «Domani ti licenziano». Guardiola ha alzato le dita, sei, come i titoli di Premier che ha vinto. Morituri te salutant. Sembrava il Colosseo. È solo football, baby.

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La fame

Per i giornali inglesi la corsa di Pep rischia di portare in un vicolo cieco. Improvvisamente tutto è logoro, al City. A 34 anni, la velocità di Kyle Walker sembra essere scomparsa. E dicono, sempre quelli del Guardian, che Gündogan, De Bruyne e Bernardo Silva sembrano invecchiati. Così, di colpo. Foden e Stones non sono stati al massimo dal ritorno dopo gli Europei. Haaland sta sbagliando occasioni (ma è comunque il capocannoniere del campionato). Come ha accennato Guardiola qualche giorno fa, forse una parte di fame è svanita. «Le persone si fidano di me, la dirigenza. Non è normale nei grandi club ottenere questi risultati, ma dobbiamo accettarlo. Ciò che è certo è che voglio restare. Voglio farlo. Ma nel momento in cui sentirò di non essere più positivo per il club, un altro arriverà. Deve essere così. Voglio avere l'opportunità di provarci. Non voglio scappare».

Guardiola vuole difendere un’eredità, costruire adesso, in queste condizioni, è dura. Nei periodi oscuri ci si affida alla magia o al pensiero. A metà strada si è fermato Arrigo Sacchi, uno che ha definito il calcio moltiplicativo: un giocatore che gioca bene migliora chi gli sta intorno; un giocatore che gioca male li trascina giù. I problemi generano problemi.

I graffi e il riso

Tanti ne ha ormai Guardiola, chi l’avrebbe detto. Pep ha guidato il City agli ultimi quattro titoli di Premier League e a sei in totale. Ha vinto anche due FA Cup, una Champions League, una Supercoppa Uefa e una Coppa del Mondo per club. Gli è stato chiesto se il presidente del City, Khaldoon al-Mubarak, gli avesse offerto rassicurazioni. Ma sono bastate sei sconfitte (cinque consecutive) e due pareggi nelle ultime nove. Non funziona più nulla. Infortuni (vedi Rodri), errori, sciagure.

Dopo l’ultimo pari contro il Crystal Palace hanno pure cancellato il volo di ritorno e i Citizens si sono fatti 400 chilometri in autobus. Guardiola non ha più pazienza, litiga con l’arbitro, sbotta, impreca. Dopo un altro pari, quello contro il Feyenoord, si presentò in conferenza stampa con i graffi in testa. E vai con l’esegesi. Guardiola non ha nascosto nulla: «Come ho fatto? Dal mio dito… con la mia unghia. Volevo farmi del male». Poi ha riso e si è alzato dalla sedia per lasciare la conferenza stampa. Un altro grande condottiero rise davanti alle proprie sciagure, dissimulava il dolore e l’impotenza: Annibale, mentre il suo impero crollava e la fortuna lo aveva abbandonato. Almeno Guardiola è decisamente più pop.

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