La differenza fra i due? Lui la spiegava così: «Gianni ricorda più facilmente la data del primo quadro dedicato al tennis piuttosto che il risultato di un incontro appena visto. Lui è capace di cavar fuori un grande articolo anche da un match insignificante. Può accadere che Gianni dimentichi di dire quel che è successo: ma sicuramente vi spiegherà perché».

I due, Rino Tommasi e Gianni Clerici, funzionavano in tv e sono diventati nel corso del tempo un paradigma della telecronaca sportiva, proprio per questo: se Gianni non badava a ricordare il punteggio (anche perché magari in quel momento non l’aveva presente manco lui) ci pensava Rino.

Perfettamente complementari. Mentre Gianni osservando una volée di McEnroe contro Emilio Sanchez urlava «Che carezza» aggiungendo che pure lui ne avrebbe accettata una così se le sue preferenze sessuali glielo avessero permesso, Rino taceva. E un attimo dopo diceva: «Trenta a zero». Perché nei numeri c’è tutto. C’è un mondo. E quello era il suo mondo.

Guantoni e racchette

Tennis e boxe, non esattamente in questo ordine, erano i campi privilegiati dove si esprimeva. E se su tutte le sue foto fossero comparsi dei balloon, dentro ci sarebbero stati i dettagli di ogni nome, ogni evento e ogni match, come il simbolo del dollaro sopra la testa di Zio Paperone. La sua era una beautiful mind che cercava un ordine dentro un ring o un campo da tennis che, non per nulla, hanno la stessa forma. Apparteneva a una generazione di giornalisti totali che vedevano sé stessi come degli instancabili mercuri cui era stato assegnato il ruolo di annunciare la buona novella sportiva al mondo.

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Per lui abbandonare Wimbledon, volare negli Usa per commentare un match di pugilato, risalire su un aereo e tornare a Londra in tempo per la finale (come Phil Collins al Live Aid, che suonò a Filadelfia e poche ore dopo a Wembley) era un atto dovuto. La sua la massima espressione del ruolo del narratore. E lui che era stato, in una delle sue vite, anche un organizzatore di incontri di pugilato e che in quei commenti (esemplare Hagler-Mugabi dell’86 a Las Vegas) trovava un’energia trascinante che nel tennis talvolta gli faceva difetto, sapeva anche trasformare i numeri in parole.

Se Mario Ferretti creò un mondo nel ’49 raccontando alla radio che durante la Cuneo-Pinerolo c’era un uomo solo al comando e il suo nome era Fausto Coppi; se quarant’anni dopo Victor Hugo Morales celebrò il gol più bello del secolo – quello di Maradona all’Inghilterra ai Mondiali dell’86 – creando una domanda che nemmeno Shakespeare avrebbe potuto inventare con quell’enfasi mistica («Aquilone cosmico, da che pianeta sei venuto...») Tommasi ha lasciato in eredità i «circoletti rossi» con cui annotava i punti degni di essere ricordati e il «personalissimo cartellino» dal quale emetteva la sua sentenza per un incontro di boxe, o su chi avrebbe meritato di vincere dentro un campo in terra.

Il suo ego lo aveva portato a definirsi un internet pre-internet: sull’onda di quei detentori della sapienza necessaria a raccontare lo sport che prima di lui stilavano classifiche tennistiche (compreso il suo grande amico Bud Collins del Boston Globe), prima che nel ’73 tale compito fosse assegnato al computer.

Quel computer che Rino cordialmente detestava. Riteneva che una classifica attendibile potesse essere stilata soprattutto considerando i confronti diretti fra i giocatori e non secondo altri criteri. Forse c’era in questo il timore di veder usurpato un ruolo da Sibilla, il ruolo di chi recepiva il messaggio dei numeri, di cui si riteneva sacerdote.

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Uno degli aneddoti preferiti di Tommasi riguardava proprio Bud Collins. Si era nel 1968 e i due erano a Cagliari per seguire Italia-Ungheria di Davis. Con Clerici, Sergio Tacchini e altri. L’allegra comitiva si concesse una passeggiata in città e s’imbatté in uno striscione elettorale in stoffa del Movimento Sociale. Bud decise di staccarlo e portarselo a casa per ricordo.

Tommasi tentò di dissuaderlo ma senza successo: e il giornalista che aveva vissuto in prima persona gli orrori del Vietnam chiese a Tacchini di attaccare lo striscione alla sua auto per trascinarlo via. Pochi mesi dopo, Tommasi raccontò che alla finale di Forrest Hills Bud indossava un paio di pantaloni ricavati con il tessuto dello striscione del Msi.

Se fosse in attività oggi forse si direbbe trumpiano. Pensava che il doping fosse una realtà ineliminabile dallo sport e che dovesse essere completamente legalizzato o quasi. Le scommesse pure. Ma non accettava eccezioni su competenza e completezza dell’informazione: una posizione che al telespettatore di tennis parve come l’annuncio di una salvezza possibile dopo anni di commenti scarni, eccessivamente emotivi o tristemente occasionali. Oggi nessuno si sognerebbe di aprire una telecronaca cantando «Bongo Bongo Bongo/stare bene sol nel Congo». Ma in forza di quella competenza assoluta come l’orecchio di Beethoven, lui e il suo amico Gianni allora potevano.

È morto all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. Un dato essenziale, un numero, così si sarebbe congedato nel corso di un’ipotetica telecronaca.

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