Dall’approfondita inchiesta giornalistica condotta da Mario Francese sulla diga Garcia, è emerso lo stretto collegamento tra la costruzione dell’opera e i progetti di "Cosa Nostra". Una particolare attenzione fu poi dedicata dal giornalista alle possibili causali dell’omicidio del colonnello Russo, di cui poneva in risalto la matrice mafiosa
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Dall’approfondita inchiesta giornalistica condotta da Mario Francese sulla diga Garcia, emergevano alcuni elementi di particolare rilievo:
- il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di una enorme accumulazione di ricchezza connessa ai lavori di costruzione della diga;
- gli elevatissimi vantaggi economici conseguiti dal boss di Monreale, Giuseppe Garda, mediante la percezione dell’indennità di esproprio per i terreni da lui acquistati a Roccamena;
- il compimento di analoghe manovre speculative da parte dei Salvo e dei Giocondo;
- lo stretto collegamento tra la costruzione della diga Garcia ed i progetti di "Cosa Nostra";
- la rottura di consolidati equilibri mafiosi, i conflitti interni a "Cosa Nostra", i sequestri di persona a scopo di estorsione realizzati in Sicilia occidentale negli anni ‘70, in correlazione con gli interessi economici relativi alla diga;
- la catena di omicidi, legati agli appalti, verificatasi tra Corleone, Roccamena, Mezzojuso, Ficuzza, ed altri centri vicini;
- la tendenza di "Cosa Nostra" a creare condizioni particolarmente favorevoli all’impresa milanese Lodigiani;
- i subappalti conferiti dalla Lodigiani;
- i rapporti del gruppo Salvo-Corleo con i direttori tecnici delle imprese Lodigiani, Saiseb e Garboli, operanti nella valle del Belice;
- la possibile connessione tra l’omicidio del colonnello Russo e l’attività da lui svolta in favore dell’impresa Saiseb;
- l’evoluzione della mafia verso una dimensione imprenditoriale;
- il disegno dei boss mafiosi di trarre rilevanti vantaggi dalla presenza delle grandi imprese e degli appalti di colossali opere pubbliche nella Valle del Belice;
- l’asse Liggio-Coppola nell’anonima sequestri;
- le singolari operazioni compiute da imprese come la Zoosicula RI.SA. (denominazione che si sarebbe tradotta in “Riina Salvatore”), la Solitano, la SIFAC;
- l’attività svolta da Giovanni e Leoluca Grizzaffi, imparentati con Salvatore Riina.
L'inchiesta sul delitto nel bosco della Ficuzza
Una particolare attenzione fu, poi, dedicata da Mario Francese alle possibili causali dell’omicidio del colonnello Russo ed al contesto in cui il delitto veniva a collocarsi.
In data 20 agosto 1977 venne pubblicato sul "Giornale di Sicilia" il seguente articolo di Mario Francese, che poneva in risalto la matrice mafiosa del delitto:
Alle 22,10 del 20 agosto a Ficuzza trucidati il col. Russo e il prof. Costa.
A che punto è l'indagine dopo un mese dal delitto.
Nessun elemento concreto fa preferire finora una delle piste seguite: anonima sequestri o appalti
Un mese fa, come oggi, il colonnello Russo veniva assassinato da 10 proiettili (cal. 38 a lupara), insieme all'insegnante Filippo Costa, nella sua residenza estiva di Ficuzza, a quasi 12 chilometri da Corleone. Trenta giorni di suspense, dopo i primi attimi di stupore, incredulità e sgomento per questa spietata esecuzione di un alto ufficiale dell'Arma che, con la sua personalità, era riuscito a dare un'impronta del tutto personale a un'infinità di indagini e che, praticamente, era esploso, col "caso" di Castelfranco Veneto, dopo la strage di via Lazio del 10 dicembre 1969.
E dopo trenta giorni, è lecito domandarsi: a che punto sono le indagini, quale la direzione che battono gli inquirenti per fare luce su questo nuovo terribile delitto che ha riportato, quasi all'improvviso, alla ribalta questa nostra tormentata città?
Quali i retroscena che hanno fatto decretare ad un "tribunale", certamente di mafiosi, questo delitto che, per la qualifica, statura morale e personalità della vittima, doveva fare largamente prevedere indagini a tappeto e nuovi drastici provvedimenti contro mafiosi singoli ed organizzati? E perché è morto Giuseppe Russo? E' vittima della sua abnegazione e della sua "passionaccia" per l'investigazione o è rimasto travolto, sin dai primi passi, dalla nuova attività di consulente di imprese, cui da otto mesi (cioè da quando era in convalescenza) si sarebbe dedicato, in vista del congedo dall'Arma, ormai dato per prossimo?
A trenta giorni dalla esecuzione di Ficuzza, nessuno di questi interrogativi ha trovato una logica risposta. Un giro vorticoso di indagini di Criminalpol, Squadra Mobile, Carabinieri e Guardia di Finanza, un'affannosa rincorsa di elementi in molteplici direzioni, una ridda di supposizioni e di ipotesi. Di concreto, però, fino a questo 20 settembre, proprio nulla, né in un senso né in quello opposto. A trenta giorni dal 20 agosto, cioè, non possiamo, con la certezza di non essere smentiti, né dire che le indagini sono incanalate verso un procedimento a carico di ignoti, né sostenere che gli inquirenti a breve scadenza, presenteranno una soluzione a questo sconvolgente fatto di Ficuzza.
Un fatto è certo: Giuseppe Russo è stato assassinato e insieme a lui Costa, col più ortodosso metodo mafioso. E' certo che da otto mesi, cioè da quando aveva lasciato il comando del nucleo investigativo di Palermo, l'alto ufficiale diceva di non essere fatto per stare "dietro ad una scrivania". Si sentiva lontano dal nucleo, un personaggio in disarmo e per questo, probabilmente, avrà scelto la via della convalescenza, un prologo alla sua vita che Russo, ancora nel pieno vigore fisico avrebbe voluto, a quanto pare, dedicare ad un'attività manageriale per conto di grosse imprese private.
«Uno dei più gravi errori di Giuseppe Russo - diceva ieri un alto ufficiale dell'Arma - è stato quello di ritenere che egli potesse conservare integra la sua personalità nel nuovo mondo in cui si accingeva ad entrare. Riteneva che gli amici che si era accattivato come ufficiale, continuassero ad essergli amici anche nella sua nuova attività. La verità è che gli amici rimasti a Russo, dopo che lasciò il nucleo investigativo, sono stati pochi, pochissimi. Forse si contano appena sulle dita di una mano».
Chi sono questi amici e chi sono gli altri, quelli che Russo riteneva tali e che, una volta lasciato il "Nucleo", gli avrebbero voltato le spalle?
Le indagini per il caso Russo, comunque, per quel che siamo riusciti ad intuire, richiedono tempi lunghi e nemmeno garantiscono una soluzione certa.
Come per tutti i delitti eclatanti, gli inquirenti "partirono sparati": dal 21 al 24 agosto furono fermati una ventina di sospetti killer (palermitani e trapanesi). Gli inquirenti sembrarono puntare sugli sviluppi del caso di Luigi Corleo "re" delle esattorie sequestrato a Salemi e mai più ritornato. Il generale dei carabinieri Mino dice: «Chi muore come Giuseppe Russo lava con il sangue quel tanto che può non andare bene anche nelle migliori famiglie».
Commemorazioni e commenti fino al 25 agosto, giorno in cui la signora Mercedes, vedova dell'ufficiale, dichiara che «forse Ninì era proprio un enigma» e che «voleva veramente abbandonare l'Arma». Gli inquirenti, intanto, proiettano sull'agguato di Ficuzza l'ombra di Luciano Liggio.
Il 26 agosto sembrava che le indagini fossero ad una svolta: gli inquirenti fermano a Ficuzza il "patriarca" della zona, Vincenzo Catanzaro e, a Marineo due contadini, Ciro Benga e Giovanni Spinelli. Si dice che il boss di Ficuzza doveva essere stato preventivamente informato di un così grave delitto compiuto nella sua zona. E si dà importanza ad un incontro a Ficuzza tra don Vincenzo Catanzaro, Benga e Spinelli. Qualcuno si illude che si è imboccata la pista giusta quand'ecco improvvisa rimbalza la notizia che "Giuseppe Russo, in procinto di lasciare l'Arma, era diventato consulente di una impresa". Ci si dimentica per un po' di Catanzaro e degli altri due arrestati. Si insegue la suggestiva ipotesi di Russo consulente: i cronisti vanno alla esasperata caccia di questa superimpresa ombra per cui lavorava Russo. Una ipotesi che prende corpo anche perché i Salvo, parenti di Corleo, escludono agli inquirenti di aver dato incarichi di lavoro all'ex comandante il nucleo investigativo.
Indagini stressanti, ma ancora più stressante il lavoro dei cronisti, alla caccia di una verità su questo misterioso e nebuloso caso di Ficuzza che richiama l'omicidio del commissario Cataldo Tandoj, nel marzo 1961 ad Agrigento e l'omicidio di Pietro Scaglione 5 maggio 1971 in via Cipressi. Tre delitti con un elemento in comune: i tre sono stati assassinati nel momento in cui lasciavano i loro incarichi. Poi esplode la pista dell'"anonima sequestri" con quali risultati non è dato saperlo. Intanto Catanzaro, Benga e Spinelli vengono scarcerati per mancanza di indizi.
A trenta giorni, così, il delitto Russo ha sollevato un enorme polverone, ha fatto acquisire tanti elementi ma con quali risultati?
Perché è stato ucciso il colonnello?
Una precisa ipotesi sulla causale dell’omicidio del colonnello Russo fu prospettata da Mario Francese nel seguente articolo, apparso sul "Giornale di Sicilia" del 30 novembre 1977:
Ecco il perché dell'omicidio di Ficuzza.
Russo ostacolò la mafia nella corsa agli appalti
La Lodigiani era stata costretta a sostituire un imprenditore di Montevago con la Inco di Camporeale - Fu questa la scintilla che provocò l'intervento del colonnello e la vendetta dei boss
L'uccisione del colonnello dei carabinieri, Giuseppe Russo, è stata inquadrata nell'affannosa rincorsa degli appalti e subappalti ruotante attorno alla diga Garcia, tra Roccamena e Poggioreale: una corsa che ha visto (e vede tuttora) impegnate società-paravento dalle denominazioni disparate e mascheranti, talvolta, interessi inconfessabili. Ma il colonnello Russo con gli appalti non ha avuto proprio nulla a che vedere: l'alto ufficiale è morto nell'espletamento dell'ultima delle sue tante missioni in un territorio dominato da interessi mafiosi e che era stato teatro dei più clamorosi sequestri, da Corleo a Campisi, da Madonia a Cassina e alla Mandalà. Il fatto stesso che carabinieri e polizia hanno denunciato, col loro rapporto, per favoreggiamento, i titolari dell'impresa che sta costruendo la diga Garcia, i milanesi Vincenzo e Giuseppe Lodigiani, cinque tecnici dell'impresa, un imprenditore di Montevago, Rosario Cascio, e Biagio Lamberti di Borgetto, indica in quale ambiente il duplice omicidio Russo-Costa di Ficuzza è maturato.
Accanto a questi imputati, tutti di favoreggiamento, il rapporto indica personaggi, etichettati al momento come ignoti, che avrebbero avuto un ruolo, come mandanti o come esecutori, nell'agguato di Ficuzza. E di questi è ancora prematuro parlare.
La vicenda Russo ha il suo prologo proprio a Garcia, dove su un arido cocuzzolo montano, di proprietà dei Giocondo di Poggioreale, la Lodigiani scelse il suo quartier generale. L'incarico di costruire il cantiere-base dell'impresa milanese venne affidato all'imprenditore Rosario Cascio di Montevago, che, per cento milioni circa, realizzò, per conto della Lodigiani, i padiglioni-albergo per i circa 300 operai che vengono impiegati nei lavori, un grande padiglione mensa e tutta una serie di accessori. La perfetta esecuzione delle opere indusse la Lodigiani ad affidare al Cascio ulteriori subappalti per lavori di sbancamento e di fornitura di inerti e conglomerati. Per i nuovi impegni, Rosario Cascio, fu costretto a fornirsi di una adeguata attrezzatura, acquistata per l'importo di un miliardo, con pagamenti rateali di 32 milioni al mese.
A questo punto, l'imprevisto per la Lodigiani e il Cascio. La nuova mafia si mobilita, ricorre agli attentati a Milano e a Garcia, sabota i cantieri delle imprese subappaltanti, tra cui quella del Cascio e cerca di imporre la legge della prepotenza. I Lodigiani inviano a Roccamena un esperto, sostituiscono alcuni tecnici, cercano la via del compromesso per assicurare continuità ai lavori e il rispetto degli impegni contrattuali. In questo gioco di ricerca di nuovi equilibri, sull'altare della mafia i Lodigiani sacrificarono l'imprenditore Cascio, che fu licenziato in blocco nonostante le sue pendenze cambiarie per attrezzature. Al posto di Cascio subentrò la "Inco", un'impresa di Camporeale, proprietaria di cave e fornitrice di materiali inerti e conglomerati. Comunque, al Cascio andò meglio che a Ignazio Di Giovanni, l'altro imprenditore che aveva ottenuto in subappalto un pezzo della Palermo-Sciacca e che fu ucciso qualche mese addietro nel suo cantiere di lavoro, nei pressi di Roccamena.
Rosario Cascio si rivolse al colonnello Russo per informarlo dei soprusi che aveva dovuto subire e della drammatica situazione che la sfrenata corsa agli appalti aveva determinato nella Valle del Belice? Sembra di sì, ma, l'interessato lo nega, disposto a salvare la pelle e perdere il miliardo. Da qui la sua incriminazione e quella dei titolari della Lodigiani e di cinque tecnici che avrebbero negato fatti ormai acquisiti dagli investigatori.
E' certo che Russo riferì all'Arma su ciò che stava succedendo a Garcia e dintorni e, lasciandosi guidare dalla sua istintiva passione per l'investigazione, si lanciò a capofitto in un mondo che ormai gli era familiare per le tante inchieste che vi aveva condotte. E fu la sua fine. La nuova mafia, quella del triangolo Partinico-Camporeale-Corleone, alleate delle "famiglie" di Borgetto, Roccamena, San Giuseppe Jato e Monreale, si trovò nuovamente tra i piedi l'alto ufficiale che già l'aveva sconfitta nella lotta all'"anonima sequestri". Questa volta erano in gioco grossi interessi economici e già i mafiosi, con società-paravento, erano impegnati con miliardi, spesi in acquisto di attrezzature. Fu giocoforza decretare frettolosamente la soppressione del colonnello Russo e la irreversibile sentenza di morte fu eseguita quando l'alto ufficiale meno se l'aspettava.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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