Artiste, fotografe, accademiche, arrabbiate e ribelli che agiscono di notte, nascoste dai passamontagna, riempiono le strade con «simboli di resistenza che vengono imposti sui muri della città, tutti le vedono e nessuno può ignorarle perché diventano enormi»
Da quel momento, le immagini di quelle donne, nella loro espressione più vera, diventano simboli di resistenza che vengono imposti sui muri della città, tutti le vedono e nessuno può ignorarle perché diventano enormi e, in questo modo, si appropriano degli spazi urbani.
Sguardo fisso in avanti, occhi neri e un’espressione facciale che trasmette fermezza e resilienza. Sono di una donna anziana, il cui corpo si erge solido, circondato da fichi d’india verdi che contrastano con il bianco e il bordeaux del suo abito. É una fotografia di Rehaf Batniji, fotografa e attivista palestinese, che il collettivo transfemminista Amar3 ha affisso su un alto muro incavato al di sopra di una struttura di cemento di piazza di Porta Portese. Si tratta della prima di una serie di azioni che le attiviste hanno svolto a Roma in vista del corteo dell’8 marzo.
«I soggetti che scegliamo sono per lo più corpi non conformi di donne e soggettività che lottano sia nel privato che nel pubblico - spiega Ruth (nome di fantasia usato per garantire l’anonimato delle attiviste vista l’illegalità delle loro azioni di lotta) - e che con noi escono dall’ombra e vengono rese visibili a tutti». Proprio come la donna fotografata da Rehaf Batniji, immersa tra i fichi d’india «capaci di sopravvivere in ambienti estremi», che rappresenta sé stessa e la resistenza di tutte le altre palestinesi.
Amar3 nasce per «istinto» all’interno «del solito bar». Unendo la rabbia verso una società che non le rispecchia e il bisogno di agire concretamente sotto forma di lotta; un gruppo di amiche, «tra qualche birra e tantissime sigarette», decide di esprimere la propria anima artistica e ribelle, uscendo totalmente dagli schemi del settore dell’arte convenzionale.
Originariamente sono in tre e iniziano stampando le fotografie di donne in protesta, per affiggerle «giganti sui muri». Agiscono di notte, disobbedendo alla legge e alla pubblica morale: «Una volta, un parroco di Roma ha chiamato la polizia mentre finivamo di attacchinare la foto di un corpo nudo “fastidioso” nella piazza dove affacciava la parrocchia, urlando allo scandalo», raccontano tra risate e sguardi complici. Da quel momento, le immagini di quelle donne, nella loro espressione più vera, diventano simboli di resistenza che vengono imposti sui muri della città, tutti le vedono e nessuno può ignorarle perché diventano enormi e, in questo modo, si appropriano degli spazi urbani.
Azzurra Muzzonigro, ricercatrice e architetta che, insieme alla collega Florencia Andreola, ha fondato il progetto Sex & the City - il quale si occupa di osservare le città a partire da una lettura di genere - spiega: «Le città non sono solo pietre e mattoni ma anche il significato che si attribuisce ai luoghi. Esempio di ciò è la toponomastica delle città italiane in cui circa il 50/60 per cento delle intitolazioni pubbliche sono dedicate a uomini, contro un tre per cento di titolazioni dedicate a donne. Questo riflette un netto squilibrio». Dunque, secondo l’esperta: «Progetti di risignificazione dello spazio pubblico, come quello delle attiviste di Amar3 sfidano il linguaggio monumentale delle città, considerato “intoccabile”».
A poco a poco, Amar3 si espande unendo artiste, fotografe, accademiche, donne arrabbiate e ribelli, di età e provenienze differenti, che sfidano la sistematicità della società attraverso l’arte pubblica. «Giocare con la fragile linea tra l’etica e l’estetica, tra la potenza dell’immagine e la scomodità del messaggio, tra la stranezza e la bellezza, tra la regolarità urbana e la rottura dei suoi canoni, è lo spazio dove ci interessa inserirci», spiega Judy. Per “le Amar3” questo poteva essere fatto solo insieme, associandosi. «Da sole ci sentiamo interrotte, strappate. Unite acquistiamo forma».
Il gruppo si riunisce regolarmente per programmare le azioni nei minimi dettagli. Il processo parte dalla scelta dell’immagine da rappresentare: «Di solito cerchiamo di utilizzare le opere di fotografe emergenti. Una volta identificata l’autrice, scegliamo la foto sulla base delle emozioni che ci trasmette, del messaggio politico che secondo noi è in grado di comunicare».
Fatto ciò, programmano il luogo in cui avverrà l’attacchinaggio. Gli spazi urbani diventano parte integrante dell’opera: «Scegliere il dove e il quando diviene altrettanto importante che scegliere l’artista o l’immagine che vogliamo rappresentare».
Come il muro su cui ora spunta la gigantografia della foto di Rehaf Batniji, che si trova di fronte alla sezione di arte contemporanea del Ministero della Cultura. L’istituzione che rappresenta proprio quel tipo di cultura che, secondo le attiviste, «non è salva dalle dinamiche di potere che attraversano la nostra società, a discapito di come molti invece la descrivono» e alla quale si ribellano.
Per il collettivo la scelta dello spazio pubblico come “museo” delle loro opere vuol dire esporre «al giudizio e alle opinioni di tutti», provocando stupore, fastidio, riflessione e dialogo: «Un mix potente di forze impossibili da esprimere altrove».
Prima di agire ci si incontra in un posto sicuro, si preparano le immagini, si struttura l’azione. I ruoli vengono definiti, i passamontagna distribuiti e poi via. Escono insieme per appropriarsi delle strade di Roma (e di altre città) durante la notte, che non spaventa ma al contrario diventa complice e crea complicità. «A Palermo dopo un attacchinaggio difficilissimo con il vento che ci tirava giù dal trabattello alcuni operai ci hanno portato dei rustici buonissimi per rincuorarci. Quella volta è stato veramente magico». All’alba poi, completata l’opera, ognuna torna alla propria vita quotidiana; soddisfatte di essersi riappropriate, con le loro regole, di quegli spazi su cui il patriarcato “crede” di avere il monopolio.
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