La galera sta aggravando i disturbi psichici di Simone Isaia, 32enne che ha dato fuoco all’opera. C’è una petizione con oltre 5mila adesioni per affidarlo a una struttura differente. L’ha firmata anche l’artista
Negli anni Ottanta i giornali napoletani ricevevano quasi tutti i giorni lettere da Beniamino Pontillo. Viveva al Dormitorio Pubblico di via De Blasis. Era un clochard. Si sentiva nel suo linguaggio una cultura non comune, e su tutti gli argomenti di varia umanità diceva la sua, dai cani randagi alle farfalle, da come si stava in strada a come si mangiava, era un inviato tra la povertà, scriveva quasi più lettere di quelle che mandava Arbasino. I giornali, da Il Mattino agli altri più piccoli, gli conservavano lo spazio, si intuiva che quella era la voce della città o voleva esserlo, e poi come per il caffè sospeso, era lo spazio lasciato in bianco: era il povero ufficiale, quello che si firmava con l’indirizzo del Dormitorio, che tutti sapevano che cosa era, dove stava e che significava.
Quello spazio che gli veniva concesso prima e conservato dopo era un rimasuglio: di una vecchia nobiltà del giornalismo napoletano dai tempi della Serao, di chi aveva visto i diseredati dell’Albergo dei Poveri, del pezzente di San Gennaro, e gli si lasciava lo spazio bianco come un risarcimento. Doveva sentirsi parte del racconto della città anche se non aveva né tetto né una macchina da scrivere. Negli anni Novanta, Tahar Ben Jelloun, scrittore e poeta marocchino, viene a Napoli e scrive un romanzo sulla città, L'Auberge des pauvres, rimanendo colpito dall’Albergo dei Poveri progettato dall’architetto Ferdinando Fuga su incarico di re Carlo III di Borbone nel 1749.
Una stecca enorme, quattrocento metri di facciata, che provava a contenere le idee illuministe e la preoccupazione per i poveri.
«REGIVM TOTIVS REGNI PAVPERVM HOSPITIVM», recita la scritta all’ingresso, c’era posto per ottomila persone. In quegli anni l’albergo era messo male, non era in funzione, vissuto abusivamente, ma Jelloun capì che lì dentro c’era la voce di Napoli, quella di una vecchia clochard, l’ultima ospitata, che animò il suo romanzo. Sempre negli anni Novanta, lo scrittore Daniele Del Giudice, nel suo libro di racconti Mania, scriveva del cimitero delle 366 fosse, progettato da Ferdinando Fuga, su commissione di Ferdinando IV di Borbone nel 1762, anche quest’opera si occupava di poveri, di diseredati, senza ultima dimora, e assicurava loro una fossa per ogni giorno dell’anno, sembrava un progetto degli architetti Boullée e Ledoux che usciva dalla carta e diventava realtà. Ancora una volta, uno scrittore, straniero a Napoli, individuava come centro del racconto della città: l’antica capacità di preoccuparsi degli ultimi. In questa volontà c’era sicuramente la determinazione di mostrarsi magnanimi, ma intanto quella capacità è rimasta nelle opere e anche in molti napoletani.
Simone Isaia
Tanto che nell’Italia della giustizia di classe, a Napoli – nonostante ora l’Albergo dei Poveri venga chiamato Palazzo Fuga e la facciata sia utilizzata come schermo per “Mission: Impossible – Dead Reckoning”, c’è chi si preoccupa di un senzatetto –, Simone Isaia, 32 anni e un nome da romanzo che evoca Vangelo e Bibbia, presunto “killer” della Venere degli Stracci, installazione di Michelangelo Pistoletto, riproduzione in piazza Municipio a Napoli, della sua prima Venere, apparsa nel 1967, una decina di esemplari sparsi per musei.
È il 12 luglio del 2023, quando l’opera – assicurata come ignifuga – prende fuoco e si dissolve, divenendo, in un paradosso tutto napoletano non colto da nessuno, un oggetto in meno, altra serie di opere di Pistoletto. Che, scosso dall’inatteso evento, parla di femminicidio, in una semplificazione che sminuisce tutto. Molte voci televisive di Napoli, niente a che vedere con Pontillo, invocano l’esercito, se la prendono con i ragazzi di strada, la minigonna, un po’ anche col grammofono, chiedendo giustizia per la Venere.
Altre voci, che contemplano l’ironia, tornano sugli stracci, perché Napoli ha un vecchio mercato delle pezze, “Resìna”, ad Ercolano, nato nel 1944, apparso in molti film, dove si smerciava quello che veniva rubato alle armate americane: dai paracadute ai jeans, poi sono arrivati anche i cappotti dell’Armata rossa. Pistoletto, per i napoletani, non aveva rappresentato quello che raccontava al mondo: il contrasto tra la bellezza delle statue greche e gli stracci della Terra, ma un monumento a “Resìna”.
Che significava: «Sì, bello, ma insomma». Che è l’atteggiamento di Napoli per quasi tutto.
Un colpevole
Mentre giornali e tv di mezzo pianeta raccontavano il rogo, la città del boom turistico aveva bisogno di un colpevole, che veniva individuato dalle registrazioni delle telecamere della piazza. Un ragazzo, che più o meno, corrisponde a un clochard, Simone Isaia, che avrebbe appiccato il fuoco, c’è anche una strana runner che passa e si ferma due volte, ma Simone aveva cinque accendini nelle tasche.
Aveva anche altro, si immagina possessore di molti palazzi storici italiani, tanto che sul suo profilo Facebook appare preoccupato per il bonus facciate, un modo per toglierglieli. Simone come quasi tutti i clochard – da Il segreto di Joe Gould di Joseph Mitchell in poi – ha molta poesia, moltissime ossessioni e diversi punti di rottura. Aveva una famiglia normale, si era diplomato, parla un po’ di olandese, di francese, spagnolo, scrive in inglese, dopo aver lavorato ad Amsterdam nel ristorante del cugino, si perde, complice la libertà olandese. Quando torna a Napoli quella libertà diventa un TSO, e da lì comincia la caduta, che poi è un viaggio diverso che ha bisogno di una pazienza differente e di una grande comprensione. Simone è ancora in carcere e non deve restarci, perché la cella sta aggravando la sua situazione (la dividono in 7), accelerando il suo complottismo, chi sa delle pagine di David Foster Wallace sulla chimica e l’umore, ma anche chi non le ha lette, capisce che Simone va curato non rinchiuso.
C’è una petizione che hanno già firmato in oltre 5.000 (su change.org lanciata da Iod edizioni di Pasquale Testa) per affidarlo a una struttura differente, quella di Don Franco Esposito. L’ha sottoscritta anche Pistoletto. Mentre la Venere tornerà in piazza Municipio. «Più bella e più superba che Pria» avrebbe detto Petrolini. Al risorgere della Venere dovrebbe rivedere le stelle anche Simone Isaia, che per i poveri è la vera Venere. Napoli è la città dei paradossi: c’è la camorra che la stritola e c’è Benedetto Croce che scrive che la concezione della Storia della libertà ha come suo necessario complemento la libertà stessa come ideale morale. Basta voltarsi indietro per scoprirlo o guardare alle scelte di Simone Isaia.
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